Il caso Spotlight era in odore di Oscar dal momento della sua uscita nelle sale. Fosse solo per l’incredibile impianto scenico messo in piedi dal regista Tom McCarthy e dai dialoghi serrati che richiedono un notevole livello d’attenzione da parte dello spettatore. La materia trattata era scottante quanto un ferro da stiro lasciato su una camicia bianca e, in quanto tale, decisamente esposta ai rischi di macchiare permanentemente uscendo fuori dalle righe. Invece Spotlight è fenomenale, e l’Academy se n’è accorta: miglior film e miglior sceneggiatura originale firmata Josh Singer e McCarthy stesso.
Un atto d’accusa contro l’omertà, la rappresentazione di quello che il giornalismo dovrebbe essere; dopo Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula sul «caso Watergate», un’altra pellicola mette in scena l’impresa titanica di un gruppo di giornalisti spasmodicamente votati alla ricerca della verità. Il team del Boston Globe (a cui l’inchiesta valse il Premio Pulitzer di pubblico servizio nel 2003) che dà il nome al film ha condotto negli anni della tetra presidenza Bush un’indagine sottilissima sugli abusi sessuali su minori compiuti dai prelati. Partendo dal caso isolato della solita «mela marcia» dietro cui la Chiesa nasconde un sistema assai più corrotto, lo Spotlight allarga il giro fino a toccare i vertici più alti delle gerarchie, smascherando l’ipocrisia dell’integerrimo cardinale Law responsabile dell’insabbiamento dell’intera faccenda. Nella cattolicissima Boston dei Padri Pellegrini, più di settanta preti hanno abusato di bambini dalle condizioni familiari disagiate, profittando della buona fede dei genitori e facendo leva sulle loro insicurezze (emblematico il caso del giovane gay sottoposto a rapporti orali con la rassicurazione di un’esperienza mistica e naturale). L’arrivo del nuovo direttore Marty Baron (Liev Schreiber) e il solerte lavoro della squadra capitanata da Walter «Robbie» Robinson (Michael Keaton) scardina le certezze di una popolazione assuefatta all’eloquio ecclesiastico approdando in prima pagina come una bomba pronta ad esplodere. Lo shock dell’inchiesta costrinse Law alle dimissioni (per approdare, poi, a Santa Maria Maggiore a Roma) e il mondo intero a prendere coscienza di un problema di dimensioni enormi. Attraverso il precisissimo lavorio d’interviste e l’incessante ricerca tra annuari e documenti secretati, i giornalisti del Globe rompono il muro dell’omertà di una comunità chiusa nella rispettabilità del proprio nome da difendere assurgendo a simbolo di quel pubblico servizio che, più spesso, vorremmo veder messo in atto.
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Tom McCarthy si avvale di un cast d’eccezione, scegliendo le primizie del cinema americano: Mark Ruffalo è un superbo e logorante Michael Rezendes, Rachel McAdams la bravissima Sacha Pfeiffer e Brian d’Arcy James il mite Matt Carroll. Completano il gruppo i già citati Liev Schreiber e Michal Keaton nonché uno Stanley Tucci in stato di grazia, fantastico nel ruolo di avvocato combattente pronto a rischiare la radiazione dall’albo per amor di giustizia. Sull’onda della professionalità di un team perfettamente calato nella parte, il film procede veloce senza lasciare allo spettatore il tempo di concedersi la benché minima distrazione; incessante il rumore delle tastiere di fondo, martellante l’incalzare delle domande sempre indiscrete e mai asservite al volere del potente. I particolari forti raccontati dalle vittime rivelano l’orrore di un puntino sporco che si allarga a macchia d’olio a (s)coprire il marcio dei silenzi tenuti e voluti dalla Chiesa. I volteggi di regia tanto cari al cinema di oggi sono assenti, in linea con l’idea di un lavoro di servizio volto interamente a far conoscere al grande pubblico l’orrore di un fenomeno rivelato solo grazie a un’inchiesta giornalistica. Al centro c’è l’essere, il cronista come uomo al pari delle vittime, interessato a fare del giornalismo di testimonianza senza bisogno di sensazionalismo. E i dialoghi serrati riproducono questo, il bisogno di verità che deve parlare da sola, senza la mano dell’autore a creare una storia più gratificante per sé che per il pubblico servizio. Un giornalismo che c’è, anche se spesso soffocato da logiche di connivenza e omertà mascherata. Spotlight è un manifesto contro il silenzio, è la soluzione al problema di coloro che, ancora, esitano a trasformare in lama tagliente la penna che hanno in mano. Che la vittoria dell’Oscar possa almeno far sì che questo, oggi, non resti l’ennesimo canto del cigno.
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