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CHM13hTERT Agnes Questionmark

CHM13hTERT, oltre la scienza con Agnes Questionmark

È rimasta sospesa in una teca per sedici giorni, dodici ore al giorno, nella stazione di Milano Lancetti, presentando se stessa come un nuovo essere ibrido. L’artista Agnes Questionmark ci spiega la sua recente performance CHM13hTERT.

18 minuti di lettura

Agnes Questionmark (1995, Roma – vive e lavora a New York) è un’artista che pone al centro del proprio lavoro l’elemento performativo. Dal 4 al 19 maggio ha realizzato un’opera in collaborazione con spazioSERRA ed il duo curatoriale The Orange Garden nella stazione di Milano Lancetti. Presentando se stessa come un nuovo essere ibrido, Agnes Questionmark è rimasta sospesa in una teca per sedici giorni, dodici ore al giorno, appesa a dei cavi che le tenevano gambe, torso e la lunga coda prostetica che ricorda da una parte il corpo di una sirena, dall’altra una creatura marina tentacolare, più simile al polpo. CHM13hTERT è il titolo della performance: si tratta del nome di una cellula che ha recentemente permesso lo studio completo del genoma umano. La prima volta in cui Agnes Questionmark si è prestata ad una performance tanto lunga è stata nel 2018, quando a Londra ha realizzato Transgenesis, opera fondamentale per la sua crescita artistica ed individuale. In questa occasione, Agnes rappresentava sempre una creatura ibrida dal torso umano e gli arti inferiori come enormi tentacoli, posta all’interno di una piscina. Proprio dalla scelta di provare un’esperienza fisicamente stremante è cominciato il dialogo con l’artista.

Le tue performance richiedono sempre un grande sforzo fisico, Transgenesis è durata 183 ore, CHM13hTERT sedici giorni. Questo sacrificio che fai per resistere ferma per ore è parte del processo creativo oppure un’inevitabile conseguenza?

Transgenesis ha coinciso con un momento particolare della mia vita che ha determinato la lunghezza della performance. Avevo deciso io di farla durare così tanto perché avevo iniziato a fare una terapia ormonale il giorno in cui era iniziata la performance. Avevo bisogno di distruggere una parte di me per poterne creare una nuova. Il polpo in quel caso era un simbolo che si addiceva a questa mia condizione, perché alcune specie di octopus muoiono alla fine della loro gestazione per sacrificarsi in modo totale ai piccoli, che si cibano del corpo della madre. Questo aneddoto mi ha fatto riflettere molto, portandomi a decidere di sottopormi a un atto in cui dovessi uccidere una parte di me per dar vita ad Agnes, che era qualcuno che cresceva dentro di me, quasi fosse in una fase di gestazione. Ho faticato ad emergere con la mia nuova identità, e questo è il motivo per il quale c’è stata la necessità di far durare la performance ventitré giorni. Ho voluto dare tutta me stessa a livello fisico e mentale.

Recentemente hai raccontato che le prime performance in acqua per te erano state come un periodo di gestazione, mentre dopo Transgenesis c’è stato un allontanamento. In ogni caso, sembra che l’elemento marino sia rimasto presente anche nei lavori successivi. 

L’elemento marino rimarrà sempre importante per me, perché ci sono legata molto. Il punto è che la mia è una ricerca post-umana, per quanto futuristica, che alla fine resta sempre legata alla natura, al mare. Il mio continuo ritorno all’acqua è cambiato nel tempo. Mentre prima mi fondevo con l’acqua, servendomene come se fosse un grembo materno, per la prima volta attraverso Transgenesis ho iniziato ad elaborare nuove morfologie. Poi sono andata avanti, cercando di astrarre il più possibile queste creature dal mondo marino. Volevo che il mio lavoro diventasse qualcosa di mai visto prima, che non si riesce a decifrare. Con il nuovo progetto di CHM13hTERT ho cercato di rielaborare le forme didascaliche e creare una creatura non troppo riconoscibile, anche se alla fine popolarmente è stata chiamata la sirena di Lancetti. Molti non riuscivano a definire che cosa fosse.

Quella della sirena è una interpretazione errata di cui ti dispiace? 

No, assolutamente, anzi è stato qualcosa di inevitabile e anche positivo. Mi ha fatto riflettere e crescere tantissimo. L’artista ha un ruolo importantissimo nella società, un ruolo estremamente politico e sociale, dunque il suo lavoro deve diventare proprietà di tutti. Proprio per questa ragione il mio è stato presentato in una stazione. Le persone l’hanno fatto loro, l’hanno interpretato in modo molto genuino ma proprio per questo anche reale. L’hanno analizzato semplicemente per quello che vedevano. Avrei potuto scrivere qualsiasi cosa nel testo critico, parlare di qualsiasi ricerca che sto portando avanti, ma le persone hanno percepito il mio lavoro come quello che era: una creatura indefinibile legata al mondo marino nella stazione di Lancetti. È questo il bello di questo lavoro, che alla fine si perde il controllo e diventa proprietà di tutti, creando attorno a sé una storia, quasi una mitologia. Credo che questa sia stata proprio la sua forza. È entrato in possesso delle persone.

Leggendo i commenti sotto ai post che parlavano della performance c’erano persone che si chiedevano se fossi un manichino. Molti pensavano che fossi una scultura.

Erano le domande che facevano più, e io lo so perché sentivo. È stato un aspetto sia positivo che negativo, perché le persone pensavano che io non sentissi e quindi si sentivano libere di dire quello che volevano, senza filtri. Sentire alcuni commenti dopo un po’ inizia a diventare intenso, soprattutto se non mangi e non bevi per dodici ore. Se fossi un manichino era la prima cosa che tutti si chiedevano, poi quando si avvicinavano e capivano che ero un essere umano si spaventavano, alcuni scappavano addirittura. Questo mi ha fatto riflettere su come le persone si sentissero colpevoli nel guardarmi negli occhi. Provavano un senso di colpa nei confronti della mia sofferenza e quindi volevano evitare il mio sguardo. Forse non volevano prendersi la responsabilità di mettersi alla prova con me cercando di “codificarmi”. Un mio amico curatore mi ha detto proprio a questo proposito che io avevo trasformato i visitatori in scienziati. Ed è vero, loro dovevano fare un’analisi scientifica e medica di quello che avevano davanti, chiedendosi se fosse un essere umano, una creatura, un animale, un uomo, una donna… E questo è stato interessante.

Sono tante quindi le persone che si sono spaventate quando hanno visto la performance. A cosa è dovuta secondo te questa reazione? 

La qualità del lavoro era molto alta, sembrava veramente un’estensione naturale del mio corpo. Era così surreale che nessuno all’inizio lo collegava a un corpo umano e più andavano avanti, più spendevano tempo sul lavoro, più si spaventavano. I bambini avevano una reazione diversa: si fermavano contenti, ridevano, mi salutavano. Un giorno una bambina è venuta da me con un cartello dove mi scriveva che ero bellissima. Poi ha chiesto al mio assistente di performance se poteva dargli dei soldi per comprarmi il cibo e l’acqua dopo la performance (ride, ndr). È stato un gesto dolce, come se pensasse che veramente fossi stata imprigionata lì dentro. Erano i genitori che davano un’interpretazione maliziosa, e a volte li portavano via. Era anche una provocazione, ne ho pagato le conseguenze.

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Molti non sono riusciti ad interpretare univocamente la performance. Da una parte c’era di certo una forma di (ri)appropriazione del proprio corpo, una riflessione sulla possibilità di modificarlo e di creare una nuova specie. Dall’altra parte, però, tutti questi cavi creavano uno scenario più triste, di costrizione.

La mia vulnerabilità è stato qualcosa che ho sottovalutato nella preparazione del lavoro e che è emersa durante la performance. Per me era una celebrazione del concetto del post-umano, ma non avevo considerato la mia condizione: ero legata con dei cavi in una teca, un’immagine che evoca forte tristezza, malinconia e anche vulnerabilità fisica. Forse quelle, a posteriori, erano le catene che la società mette per controllare i corpi queer, o forse sono le catene che l’essere umano si mette da solo in quanto vittima di una serie di costrutti sociali. E poi c’è anche un altro fattore, cioè che si trattava di una creatura acquatica fuori dall’acqua. Molti lo hanno interpretato come il tentativo di estrapolare qualcosa dalla natura e metterlo in mostra in un luogo diverso dal suo habitat. Ed è così che una persona trans si sente, in una vita binaria, sempre come un pesce fuor d’acqua. Quindi è stata sì una celebrazione, ma anche una dimostrazione delle sofferenze che l’essere umano trova in un mondo binario e pieno di costrizioni imposte dalla società occidentale.

Dal punto di vista allestitivo, l’idea della teca e dei cavi è il risultato di un confronto con il duo curatoriale The Orange Garden oppure è un’idea che avevi sin dall’inizio?

Quella struttura è stata disegnata interamente da me. Inizialmente il progetto era diverso, era nato come un’operazione chirurgica a cui io mi sarei dovuta sottoporre. Dei performer mi avrebbero messo e tolto diverse parti di silicone. Era un riferimento al cambiamento, alla seconda pubertà che io stessa con la transizione mi sono trovata a vivere. Poi facendo una ricerca sugli apparecchi medici per operare sugli animali vi ho visto una forte ironia, come se fossero un approccio tecnologico alla natura. Erano incredibili per me, bellissimi. Tavoli ed imbracature per operare i cavalli, i leoni, o anche semplicemente le reti usate per sollevare le balene e portarle fuori dall’acqua. Ho visto i tre elementi più importanti del pianeta che si fondevano: la tecnologia, l’uomo e la natura. Mi sono immaginata come potesse essere il lettino operatorio per questa creatura nuova.

CHM13hTERT Agnes Questionmark

Nella tua arte crei una nuova realtà mescolando gli studi scientifici alla creatività. Si potrebbe parlare di fantascienza? 

La mia è sicuramente una scienza speculativa; spesso mi riferisco a molti scrittori e registi di fantascienza. Utilizzare la fantascienza per riconquistare forza. Leggere papers scientifici e parlare con scienziati per me è fondamentale. Ho iniziato un rapporto di collaborazione con una scienziata del Texas che realizza esperimenti di ingegneria genetica. È incredibile vedere quello che fa, perché lei porta avanti quello che io faccio con la mia arte. Un giorno ha detto una cosa bellissima, che tramite l’arte si riesce a spiegare quello che la scienza non riesce a spiegare e per questo è importante continuare a utilizzare la narrazione per stimolare la scienza. Lo scienziato ha bisogno dell’immaginazione per portare avanti l’esperimento e viceversa.

Hai lavorato molto all’estero, soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra. Cosa c’è di diverso nel mondo della cultura e l’approccio all’arte in Italia?

Sicuramente un aspetto positivo è che in Italia molti musei sono gratuiti o hanno delle ottime agevolazioni, soprattutto rispetto all’America, dove tutto è capitalizzato e gli ingressi costano tantissimo. Per me la cultura dovrebbe essere gratuita, ed è per questo io insisto sempre per fare arte in forma gratuita. Anche a Londra Transgenesis è stata gratuita e le persone se ne stupivano, Venivano le mamme della zona con le carte di credito in mano per chiedere dove potevano pagare (ride, ndr). Se la performance non fosse stata ad ingresso libero tutto sarebbe stato diverso. Veniva veramente chiunque, chi vagabondava intorno, mamme, studenti: era bellissimo. È per questo che CHM13hTERT è stato esposto in stazione in una teca di vetro: le persone non dovevano nemmeno entrare in un luogo; tutti potevano vedermi, anzi, erano forzati a vedermi.

C’è qualcosa che credo chiunque si sia chiesto sentendo parlare o osservando la performance CHM13hTERT. Come facevi a resistere così tante ore di fila?

Non lo so, è la stessa domanda che mi faccio anch’io (ride, ndr). Avevo fatto a mio padre un video prima di iniziare, raccontandogli della performance. Quando ha letto dal comunicato che sarei stata tutto il giorno lì, è venuto da me e mi ha detto: «Agnes, annulla tutto perché tu non ce la farai». Io l’ho tranquillizzato, ma avevo anch’io timore di non riuscirci. Erano dodici ore di fila, quasi una tortura. Io finivo alle otto di sera e avevamo (Agnes e l’assistente di performance Silas Silverman-Stoloff, ndr) una routine, forse questo mi ha salvata. Non potevo guidare, non potevo cucinare. Alla fine della performance salivamo in macchina e tornavamo a casa. Io mangiavo, facevo un po’ di stretching e poi andavo subito a dormire perché la mattina dopo alle sei mi sarei dovuta svegliare. Non so se esista veramente una preparazione a queste cose. Alla fine ci sono dei momenti di resistenza a cui in qualche modo tutti noi ci sottoponiamo. Non è stato un atto masochista, la sofferenza era semplicemente inevitabile. Per me non c’era altra scelta. Io considero le mie performance anche come delle installazioni. Per me è presente un elemento scultoreo molto importante. Il mio corpo diventa parte dell’installazione, quindi è ovvio che non posso scindermi da quello che creo. Appena si apre la mostra io devo stare lì. Non potevo scegliere di stare meno ore, non potevo scegliere di non soffrire. Era inevitabile che fossi parte del lavoro, era necessario rimanere lì, dalle otto di mattina alle otto di sera. Per creare una connessione con le persone la mia presenza era inevitabile. Il mio lavoro lo richiedeva.

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Photo credit: SpazioSERRA

Clarissa Virgilio

Studentessa di lingue e letterature europee ed extraeuropee a Milano, classe 2001. Durante gli anni della triennale di lingue, ho seguito un corso presso la NABA sulle pratiche curatoriali. Amo guardare ciò che ha qualcosa da dire, in qualsiasi lingua e forma.

1 Comment

  1. Un’intervista veramente interessante anche dal punto di vista umano. Questo è stato davvero uno dei casi in cui l’arte si è fatta tramite di una condizione umana ai più forse sconosciuta. Sono rimasta molto colpita dalle parole dell’artista, dall’importanza che ha dato anche alla sua sofferenza per realizzare questa performance e dalla sofferenza interiore che la sua condizione e quella delle persone come lei, determina e che non sempre, purtroppo quasi mai, le persone come me conoscono o immaginano o di cui non si chiedono nulla. Brava, bravissima! E grazie.

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