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Race Traitor: Adrian Piper torna in Europa al PAC

Provocatoria e politica, ma anche emotiva e riflessiva: la retrospettiva «Race Traitor» di Adrian Piper sconvolge i visitatori del PAC di Milano. Fino al 9 giugno 2024 un'occasione unica per scoprire la voce dell'artista statunitense.

8 minuti di lettura

A un mese di distanza dalla conclusione dell’Art Week 2024, è importante ricordare uno degli eventi più importanti della settimana milanese dedicata all’arte. In data 19 marzo ha infatti inaugurato la retrospettiva dell’artista statunitense Adrian Piper, Race Traitor, visitabile negli spazi del PAC fino al 9 giugno 2024. Si tratta di un’occasione molto importante: Adrian Piper, vincitrice del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 2015, torna con una mostra in Europa dopo vent’anni proprio a Milano.

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Self-portraits

Adrian Piper porta avanti con la propria arte una forte volontà di interrogare lo spettatore, portandolo a riflessioni legate al razzismo, le ingiustizie di genere, le ipocrisie del capitalismo. Quella di Adrian Piper è una pratica artistica che fa parlare, ma soprattutto che “parla”: da Concrete Infinity Documentation Piece, serie in cui l’artista riporta alcune pagine del suo diario affiancate da autoscatti, per passare ai Political Self-Portraits, dove ad autoritratti fotografici l’artista associa lunghi testi sullo sviluppo delle proprie convinzioni politiche e delle sue considerazioni rispetto alle tematiche di genere e al razzismo. La riflessione su temi sociali complessi si poggia sempre sul pensiero personale dell’artista: tutto nasce da come Adrian Piper vive la propria etnia, il proprio genere, la propria condizione sociale. In questo modo l’artista si mette a nudo: non è un caso che le pagine di diario di Concrete Infinity Documentation Piece siano affiancate nell’allestimento (a cura di Diego Sileo) alla meravigliosa serie fotografica Food for The Spirit. In questi autoscatti Adrian Piper si ritrae allo specchio semi-svestita. Ad ogni immagine la sua posizione non cambia, ma lo spazio intorno a lei si fa sempre più buio fino a far scomparire le sue forme nella totale oscurità.

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Not a Performance

«Not a Performance»: questa la scritta che tappezza l’interno di una delle tre capsule presenti in mostra. Si tratta di tre installazioni dal contenuto visivo estremamente forte. Art for the Art World Surface Pattern è un’installazione del 1976: all’interno di un cubo bianco le pareti sono tappezzate di immagini tratte da telegiornali che mostrano episodi brutali della cronaca degli anni ’70. Sopra le immagini la scritta rossa che segnala che queste istantanee non sono affatto tratte da una performance. Questa è solo la prima di una serie di espressioni che mostrano un intento di commentare la realtà con rabbiosa ironia. È la rabbia nell’osservare atroci ingiustizie talmente folli a credersi da sembrare finte, tanto da abituare e atrofizzare l’occhio dello spettatore di fronte a tali tragedie. Per questo con forza sulle pareti dello spazio Adrian Piper vuole ricordare che non si tratta di finzione, ma di atroce realtà. Lo stesso accade in Black Box White Box, installazione del 1992 formata nuovamente da due spazi cubici posizionata nel parterre del PAC. All’interno gli spazi mostrano immagini e video legati alla tragedia di Rodney King, vittima di un pestaggio mortale della polizia statunitense. Questo caso negli anni ’90 sconvolse la cronaca internazionale. Sulle pareti dei due cubi si ripete una citazione tratta da Nel primo cerchio, romanzo dello scrittore sovietico Aleksandr Solženicyn in cui si raccontano tre giorni di vita all’interno di un gulag.

Once you have taken everything away from a man, he is no longer in your power. He is free.

Una libertà che ha il prezzo della vita. Silvia Bignami, membro del comitato scientifico del PAC, racconta che in occasione dell’inaugurazione i visitatori uscivano sconvolti da questi spazi, dopo aver visto le crude immagini del corpo martoriato di Rodney King. All’inizio se ne era stupita: «Non li guardano i giornali?» Tuttavia, la creazione di uno spazio chiuso, che isola dalle altre sale e dal resto del pubblico, permette una sorta di astrazione dalla realtà. In un’epoca di saturazione delle immagini come quella attuale, fermarsi ed osservarne una in particolare permette di vederla davvero. E questa visione, nel caso delle installazioni di Adrian Piper, suscita profondo orrore.

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Miss Piper, you’re about as black as I am

…Her race is fully an art move.

Queste due frasi si ripetono in successione per formare un wall of text nei poster Race Traitor, opera del 2018. A discapito del provocatorio titolo, in quest’opera pare esserci una piena presa di coscienza della propria identità. Non a caso questo è uno dei lavori più recenti di Adrian Piper tra quelli presentati in mostra. Il percorso di conoscenza di se stessa, soprattutto per quanto riguarda la propria identità etnica, è stato per Adrian Piper un processo creativo e di riflessione durato molti anni della propria vita. Non manca un tono beffardo e ironico in molti lavori. In Self-Portrait of a Nice White Lady, l’artista inserisce una vignetta in un autoritratto fotografico: «Whut choo lookin at, mofo?». Per questo vocabolario, Adrian Piper attinge direttamente dallAAVE (African-American Vernacular English), lo slang tipico di alcune aree urbane utilizzato da persone afrodiscendenti. Al contrario, in Self-Portrait Exaggerating My Negroid Features, l’artista si raffigura tracciando uno schizzo del suo viso dichiarando di enfatizzare quei connotati comunemente attribuiti all’etnia africana.

Self-Portrait of a Nice White Lady, 1995 – Oil crayon on silver
gelatin print. 10″ x 8″ (30,4 cm) x
20,3 cm). The Studio Museum in
Harlem, New York. © Adrian
Piper Research Archive (APRA)
Foundation Berlin.

La lotta per definire la propria identità è seria, ma sa anche essere ironicamente provocatoria. Una soluzione alla ricerca di appartenenza del proprio sé e del proprio corpo sembra essere nascosta in una serie fotografica meno cruda delle altre, ma dal forte significato emotivo. L’artista realizza degli autoscatti di fianco alle persone che ha più care nella sua vita. il titolo di quest’opera forse dà una risposta alla lunga ricerca di appartenenza di Adrian Piper: I Am Some Body, The Body of My Friends.

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Immagine in copertina: Adrian Piper, RACE TRAITOR – photo by Nico Covre, Vulcano Agency

Clarissa Virgilio

Studentessa di lingue e letterature europee ed extraeuropee a Milano, classe 2001. Durante gli anni della triennale di lingue, ho seguito un corso presso la NABA sulle pratiche curatoriali. Amo guardare ciò che ha qualcosa da dire, in qualsiasi lingua e forma.

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