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La crisi alimentare e la guerra in Ucraina

La guerra in Ucraina prosegue. Tra le conseguenze del conflitto, continua ad aleggiare lo spettro di un'emergenza alimentare legata alla crisi del grano. Quali potranno essere le ripercussioni globali?

12 minuti di lettura

Crisi e fame ieri

La Rivoluzione dei Gelsomini, avvenuta in Tunisia a cavallo tra il 2010 ed il 2011, affondava le radici in una crisi fatta di una moltitudine di fattori economici, sociali e politici che insieme crearono i presupposti per gli avvenimenti che diedero il via ad una lunga serie di proteste che coinvolsero la maggior parte dei paesi arabi affacciati sul Mediterraneo, ma non solo. Anche Arabia Saudita, Yemen e Oman furono coinvolti dall’ondata rivoluzionaria. I media occidentali accolsero, più o meno in modo entusiasta, il diffondersi delle proteste, interpretandole soprattutto come uno spontaneo movimento popolare di sollevamento contro la corruzione delle élite politiche, spesso ingessate da decenni di dittature e di concentrazione del potere in poche mani. Finalmente i popoli arabi si erano accorti che la democrazia funziona meglio, cacciano i tiranni e si avviano sulla strada delle libere elezioni.

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Con il senno di poi non andò esattamente così, anche se certamente l’insoddisfazione verso i governi autoritari e cleptocratici covava sotto la cenere da anni. Il fattore scatenante fu probabilmente qualcosa di più semplice, con molte meno implicazioni ideologiche: tutta la regione, o quasi, fu interessata da un generale aumento dei prezzi dei beni alimentari, ai quali i governi al potere non riuscirono a far fronte attraverso l’intervento dello Stato. L’inflazione rese per molti insostenibile il costo dei beni di prima necessità; molto semplicemente, per la maggioranza della popolazione diventò estremamente difficile garantire un pasto in tavola. In tutto ciò, il prezzo del grano, che molti paesi arabi importano in grande quantità e che costituisce un elemento centrale della dieta, giocò un ruolo estremamente rilevante.

Dalla guerra in Ucraina alla crisi del grano in Africa

Tutto ciò ci porta alla guerra in corso, ormai da tre lunghi mesi, in Ucraina. L’inflazione causata dal rimbalzo post pandemico, a cui si è aggiunta quella legata proprio al conflitto stesso, sta causando enormi problemi non solo nel mondo occidentale, ma anche in zone, come appunto il nord Africa, che storicamente si sono dimostrate particolarmente sensibili all’andamento del prezzo dei generi alimentari, in particolare del grano. Proprio in questi giorni, il presidente dell’Unione Africana e del Senegal Macky Sall, ha richiamato l’attenzione dei leader europei sul rischio che milioni di cittadini nel continente più povero del mondo precipitino di nuovo nella fame e nella malnutrizione, nonostante i lenti progressi degli ultimi decenni ottenuti grazie a politiche di sostegno delle Nazioni Unite, al miglioramento delle politiche agricole e alla capacità di limitare le carestie.

La Russia, relativamente isolata sul piano diplomatico ed economico, sta utilizzando l’export delle derrate alimentari per influenzare le trattative in corso, seppur sottotraccia. Si tratta di un’arma negoziale antica ma sempre efficace. Se sommata all’Ucraina, la produzione di grano supera le 100 milioni di tonnellate all’anno, in gran parte destinate all’export, data la dimensione dopotutto esigua della popolazione in rapporto al territorio russo.

La dipendenza del grano del Nord Africa

Parte di quell’export, attraverso i Dardanelli ed il Bosforo, viaggia via nave proprio verso alcuni paesi arabi bagnati dal Mediterraneo: l’Egitto, il primo importatore al mondo di grano, conta sulla Russia per il 50% del fabbisogno nazionale e sull’Ucraina per un restante 30%, la Libia importa oltre il 90% del fabbisogno nazionale, la metà circa del quale è soddisfatto, o lo era, dalla produzione proveniente dalle immense pianure ucraine e imbarcata nel porto di Odessa. Anche Tunisia e Marocco sono vulnerabili in questo senso, anche se in misura minore rispetto ai vicini. A questi dati va aggiunta una riflessione, data dal fatto che nella maggioranza dei casi il pane rientra nei beni oggetto di sussidi statali, che da un lato dovrebbero mantenerne basso il prezzo, e dall’altro offrono ai governanti una leva negoziale non indifferente nei confronti della popolazione. L’Egitto ad esempio, il più grande ed economicamente avanzato paese dell’area, investe circa 2,9 miliardi di dollari l’anno (la metà del totale dei sussidi alimentari, l’1,8% della spesa pubblica) per il mantenimento del costo del pane sovvenzionato a 5 piastre egiziane (rimasto lo stesso dal 1988). Nulla è cambiato nel passaggio di potere da Mubarak, passando per Morsi e fino all’arrivo di Al Sisi.

Altri guai per il Libano in crisi

Oltre l’area del nord Africa, vi è un altro paese che potrebbe pagare pesantemente la crisi innescata dalla carenza di alimenti derivati dai cereali, e si tratta del sempre martoriato Libano. Il paese è sprofondato già da alcuni anni in una spaventosa crisi economica che ne sta minando i già fragili equilibri politici e sociali, basti pensare che la Lira ha perso oltre il 90% del valore nell’arco di due anni e potrebbe davvero trovarsi in poche settimane sull’orlo di una nuova guerra civile. L’esplosione al porto di Beirut, che distrusse proprio uno degli enormi silos di grano che costituiva una delle riserve strategiche del paese, fu solo un sintomo di un malessere che cova profondo. Quel giorno, insieme a un centinaio di migliaia di persone che persero la casa, andò perduta anche oltre un quarto della capacità di stoccaggio di grano. A questo vanno aggiunte le recenti elezioni, che hanno in parte scompigliato le carte di una politica incapace di reagire. Il paese importa(va) il 90% dei suoi cereali proprio da Ucraina e Russia, e nonostante il Cremlino si stia impegnando a riempire il vuoto da lui stesso creato (oltre i 2/3 di quel 90% provenivano dall’Ucraina), non è affatto scontato che ci riesca.

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La strategia russa e la crisi del grano in Ucraina

La strategia russa per ora sembra prevedere il fatto che il grano ucraino debba essere considerato come una sorta di bottino di guerra, e poi reimmesso sul mercato, almeno finché la battaglia del Donbass non sarà finita e forse comincerà quella per Odessa.

Il presidente russo sa bene quanto i paesi sud europei siano sensibili a ciò che succede al di là del mare, e molto probabilmente conta sul fatto che il terremoto che si sta innescando riesca a ridurre i leader europei coinvolti a opinioni più miti nei confronti delle sanzioni a cui il paese è sottoposto. Non è la prima volta, e certamente non sarà l’ultima occasione in cui il Vladimir Putin prova ad aprire delle crepe nel fronte occidentale. Fino ad ora con scarsi risultati, ma la perseveranza potrebbe pagare nel lungo periodo.

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La Russia, dopo la caduta di Mariupol, comunque ininfluente dal punto di vista marittimo in quanto il mar d’Azov è da tempo di fatto un lago russo chiuso dallo stretto di Kerch, controlla ora quasi tutta la costa ucraina ad eccezione della città di Odessa, il cui porto però è stato pesantemente minato dallo stesso esercito ucraino per evitare operazioni di sbarco anfibie da parte delle nave russe che incrociano al largo della città. A questo, si aggiunge il fatto che molto difficilmente le navi ucraine potrebbero prendere il largo in quello che è ormai un lago russo, nonostante le preoccupazioni dell’altro grande paese costiero della regione, ovvero la Turchia.

In questi tre mesi i russi hanno pesantemente danneggiato la rete infrastrutturale del paese, rendendo di fatto impossibile, o molto difficile, il trasporto su rotaia del grano fino al mare. Un’opzione potrebbe essere quella di collegare la rete ferroviaria ucraina a quella dei paesi europei confinanti, ma l’operazione è resa estremamente complicata dai diversi standard infrastrutturali che i paesi adottano. Molto semplicemente, lo scarto ereditato dal periodo sovietico impedisce ai treni merce ucraini di passare su più moderni sistemi europei. Anche entrare in Romania e sfruttare il porto di Costanza è estremamente difficile, a causa della regione separatista moldava della Transnistria, vicina a Mosca e che occupa una sottile, ma lunga parte del confine ucraino-moldavo.

Le trattative per sbloccare la situazione sono in corso, ma non è detto che si arrivi ad una soluzione condivisa. Un primo meeting si è tenuto l’8 giugno proprio in Turchia, che ancora una volta si propone come ponte su uno dei tanti fronti che la vede impegnata, ma i risultati sono stati deludenti. Nel frattempo, si è mossa anche l’abile diplomazia vaticana, che sottotraccia prova a inserirsi in una trattativa complessa ed articolata. Sul piatto questa volta potrebbe esserci una nuova crisi regionale dalle conseguenze quanto mai imprevedibili.  

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Michele Corti

Nato a Lecco nel 1996, studente di Scienze Politiche. Amo la montagna in ogni sua veste, il vento in faccia in bicicletta, la musica e provo a destreggiarmi nella politica internazionale, cosa fortunatamente più semplice rispetto a quella italiana."

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