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Libano

Libano addio. Giovani sospesi tra speranza e voglia di andare

Il Libano è sferzato da una crisi economica profonda, le cui radici affondano nella corruzione e nel clientelismo. L'unica soluzione sembra quella di andarsene via, ma resiste la speranza in un futuro migliore. Abbiamo raccolto le testimonianze di alcuni giovani libanesi

10 minuti di lettura

Fino a pochi anni fa, le luci dei suoi grattacieli facevano pensare a una rinascita possibile, forse imminente. Oggi, i blackout continui rendono le sue strade un reticolo buio. Beirut e tutto il Libano sono alle prese con una crisi economica senza precedenti e i giovani che vi abitano vivono il rimorso di aver sperato, un tempo, che le cose potessero cambiare.

L’illuminazione, in alcuni quartieri, ormai manca. L’elettricità va e viene. Ho sempre vissuto a Beirut ma a volte, di notte, questa città non riesco più a riconoscerla.

Vladimir ha poco più di trent’anni ed è musicista e architetto. Aveva vent’anni, racconta, quando ebbe l’occasione di lasciare il Libano per lavorare altrove. Decise, però, di restare per provare a cambiare le cose insieme a una generazione che definisce “di sognatori”. In pochi anni, le cose nel suo Paese sono molto cambiate, ma non come aveva sperato.

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Da qualche mese, il prezzo della benzina ha raggiunto cifre astronomiche. Riempire il serbatoio di un’auto, in Libano, oggi costa più del salario minimo mensile, nonostante a giugno il governo avesse promesso interventi specifici per sostenere le famiglie in stato di bisogno. Ma quello del costo della benzina è solo l’ultimo di una catena di eventi che stanno acuendo la crisi economica, le cui radici affondano, secondo molti, in anni e anni di corruzione e di clientelismo politico e istituzionale.

Vedo la mia città cambiare volto- racconta Vladimir– , i miei amici andar via, delusi e tristi. Nel 2019, con le proteste e la gente che scendeva in piazza per urlare al cambiamento, c’era ancora dell’eccitazione nell’aria, una possibilità di miglioramento. Ma dall’esplosione tutto è cambiato. Dove prima c’era la speranza di un cambiamento, ora c’è una chiazza di sangue.

Beirut
Foto di Gianluca Grimaldi

Era il 4 agosto 2020 quando, al porto di Beirut, ci fu una delle esplosioni non nucleari più potenti mai registrate sul nostro pianeta: centinaia di tonnellate di nitrato di ammonio, conservato per anni, esplosero causando la morte di circa 200 persone e centinaia di feriti e mutilati. Le responsabilità dell’accaduto sono ancora oggi oggetto di una controversa indagine che continua a vedere la magistratura e le forze politiche opporsi. Attualmente il giudice incaricato è Tarek Bitar, dopo che il precedente giudice inquirente, Fadi Sawann, è stato destituito proprio dopo aver accusato due ex-ministri di negligenza. Negli ultimi mesi, anche il lavoro di Bitar sta trovando una forte opposizione, comprese minacce da parte del gruppo paramilitare Hezbollah.

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Proprio per urlare alla “verità” o per sopprimerla nell’ultimo anno ci sono state innumerevoli proteste tra le strade della città, spesso mescolate a quelle indirizzate contro un governo che fallisce nel trascinare il Paese fuori dalla crisi. Tra i disordini in strada, quello dello scorso 14 ottobre, quando i sostenitori di Hezbollah sono scesi in piazza per chiedere la rimozione del giudice Bitar dal caso: tra colpi da arma da fuoco e violenze, hanno perso la vita sei persone, mentre trenta sono rimaste ferite. Il sangue tra le vie della città ha subito riportato alla mente lo spettro di una guerra civile, che anche chi non ha vissuto direttamente non ha mai dimenticato.

La politica mette pressione tra le differenze religiose, fomenta la rabbia tra le persone. In realtà, – continua Vladimir- vuole solo nascondere la propria incapacità di risolvere i reali problemi del Paese.

Un clima di tensione che non si respira solo a Beirut. Anche altrove, come nel nord del Paese, le città hanno cambiato faccia: gran parte delle catene internazionali ha chiuso i propri punti vendita, le piccole-medie imprese stanno tutte fallendo, le strade si svuotano e non è raro incontrare gente che scava nei cassonetti alla ricerca di cibo.

Quando finisco il mio turno di lavoro, ci metto sette minuti per lasciare Tripoli e tornare al mio villaggio. In quel lasso di tempo, guidando nel buio, so che qualsiasi cosa potrebbe accadermi.

Samir è laureato in economia, ma lavora in una gioielleria da quasi sei anni. A differenza di alcuni suoi amici che hanno ancora qualche perplessità sul lasciare il Paese o restarci, lui non ha dubbi.

Me ne andrei domani stesso, se solo potessi- afferma-. La situazione, anche sociale, è davvero disperata. Qui dove vivo, inoltre, non è come a Beirut e vivo costanti discriminazioni a causa della mia omosessualità. A volte, ho paura anche di camminare per strada.

Lasciare il Libano non è così semplice. La crisi economica ha rallentato ogni cosa, anche la burocrazia, e per ottenere un visto o rinnovare un passaporto possono volerci mesi: colpa dell’elettricità altalenante che non consente agli uffici pubblici di lavorare a pieno regime, delle altissime richieste di espatrio dell’ultimo periodo, ma anche dell’impossibilità di molte persone di arrivare ogni giorno sul luogo di lavoro per mancanza di benzina e soldi.

Noi libanesi non possiamo più ritirare più di un certo ammontare di denaro mensile dalla banca: attualmente il limite è di 400 dollari. Se vuoi andar via, non poter ritirare i tuoi soldi per poter iniziare una nuova vita altrove diventa un ostacolo insormontabile.

A parlare così è Saloma, 30 anni, logopedista. Fa tre lavori, tra cui assistenza a rifugiati palestinesi e siriani in un campo profughi, ma non arriva a fine mese.

Mio fratello si è trasferito in Francia- racconta– alcuni anni fa. Qui non trovava alcun tipo di lavoro. Anche mia sorella è in Europa, partita tre mesi fa. Altri miei parenti, invece, sono in Australia. Sono rimasta sola con i miei genitori. Abbandonarli mi devasterebbe, eppure, se le cose non dovessero cambiare, non avrò altra scelta: in passato andar via era una possibilità, oggi è una necessità.

È difficile stabilire quanti siano i libanesi nel mondo: a seconda delle diverse fonti, si parla di un numero che oscilla tra gli 8 e i 18 milioni. Di questi, però, solo 4,7 milioni vivono in Libano. La cosiddetta “diaspora libanese” ha origini lontane, ma ha trovato maggior spazio durante la guerra civile combattuta tra il 1975 e il 1990, quando circa un milione di persone sono fuggite altrove. Quella che, però, potrebbe essere annoverata tra le tre più severe crisi economiche sin dalla metà del ‘900, secondo il Lebanon Economic Monitor rilasciato a giugno dalla Banca Mondiale, rischia di portare a una nuova generazione di espatriati, nostalgici di un Paese che non è riuscito ad accudirli.

A un ragazzo di diciotto anni- conclude Vladimir– direi di andar via immediatamente. Noi trentenni siamo la generazione che ha sperato e ha combattuto. Non è valso a niente. Guardo i luoghi dove sono stato felice chiudere per sempre e penso “è arrivato il momento che vada via anch’io”.

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Foto di Gianluca Grimaldi, riproduzione riservata

Gianluca Grimaldi

Napoletano di nascita, milanese d'adozione, mi occupo prevalentemente di cinema e letteratura.
Laureato in giurisprudenza, amo viaggiare e annotare, ovunque sia, i dettagli che mi restano impressi.

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