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“Déjà-vu” di Tom McCarthy

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Déjà-vu (2007) di Tom McCarthy è lavoro di miniera nelle pareti della realtà. Il protagonista è un uomo qualunque che, in una Londra qualunque, muore e rinasce nuova persona. Colpito in testa da un oggetto non identificato, prodotto da una ditta che lo risarcisce soffocandolo d’oro, perde la memoria delle cose successe e delle cose fatte, di come succedono e di come si fanno.

Inizia un’esistenza decontestualizzata, si sente perennemente inadeguato, impropri i suoi gesti, scariche le persone che lo circondano. Vorrebbe strappare la pellicola che avvolge la realtà, penetrare nella materialità del mondo e delle sue eventualità, sintonizzarsi sulla ritmica di ciò che lo circonda. È una ricerca di verità che si scrive come ricerca di perfezione del singolo gesto, della selezione di parole in ogni tempo e momento.

Un tuono epifanico gli incide consapevolezza in quel desiderio indefinito: durante un party visualizza, come un déjà-vu, una scena. Fugge a casa e capisce che ricostruire quel momento occorso nella sua testa dovrà essere il senso di tutto quel denaro, di tutto quel tempo vuoto, che gli è stato regalato. Si affida a un’agenzia specializzata, che ingaggia uno squadrone di architetti, modellisti, trovarobe.

Rinasce il palazzo del sogno, in cui sono reinsediati gli inquilini: un motociclista, una vecchietta che cucina fegato, un pianista. L’uomo dentro questa realtà ricreata semplicemente sta, e cerca di trovarsi il più comodo, il più naturale possibile. Il reiterarsi infinito di gesti meccanici e fluidi, perfetti, lo esalta. Diventa avido di quella sensazione, affamato di altri stimoli che la ricreino. Le reinterpretazioni si moltiplicano, si ritualizzano.

Lui stesso reinscena vittime di regolamenti di conti tra gang rivali, vedendo nella morte, vera o pretesa, una sublime ricongiunzione. Per dipanare la matassa che sta tra lui e il vero del reale, rallenta le reinterpretazioni fino a entrare in ogni granulo materiale di tempo. Gli avvenimenti decelerati riaccelerano, e poi precipitano. Il romanzo si chiude, letteralmente, sul segno dell’infinito.

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Francesca Leali

Nata a Brescia nel 1993. Laureata in lettere moderne indirizzo arti all'Università di Bergamo, dopo un anno trascorso in Erasmus a Parigi. Appassionata di fotografia, cinema, teatro e arte contemporanea.

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