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Innamorati di Fabrizia Ramondino: 3 libri per iniziare

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11 minuti di lettura

«Perché si dovrebbe entrare in un solo cassetto?»[1]. È la vita – la letteratura – a non avere confini. Così Fabrizia Ramondino metteva un punto a se stessa. Con una domanda, tanto diretta quanto incisiva. E il vizio di incasellare subisce, da lei, il definitivo attacco. Non c’è tassello del suo percorso che non sia liminare, uno spazio del tra che investe luoghi e immaginazione. Tutto, dalla lingua ai generi, rivela un’attrazione per le soglie, e tutto è indelebilmente legato alla propria esistenza. Difficile definire l’«asimmetria»[2] della sua opera, che certo è tra le più importanti del nostro passato recente, sebbene fatichi trovare spazio e una più decisa, efficace, riscoperta critica.

Lo sguardo dal margine, estraniato – quasi – dal proprio sé e dal mondo, fotografa un aspetto-chiave intimamente legato a un aspetto di sé, a quell’assenza di «un’unica lingua, di un’unica patria, di un’unica casa casa»[3] che rende la scrittura un dispositivo unificante, il solo luogo di ri-composizione e “cura”. Le esperienze dell’io, disperse e diffratte, trovano così un definitivo approdo. È una «seconda nascita», la fissazione della lotta per il vivere, attraverso il suo male e le ingiustizie del mondo.

Chi era Fabrizia Ramondino?

Nata a Napoli il 31 agosto 1936, Fabrizia Ramondino si trasferisce presto a Maiorca a seguito del padre diplomatico, nominato console dal governo fascista. È qui che si situa la prima scissione identitaria, incarnata nell’uso di lingue diverse: l’italiano in famiglia, il castigliano a scuola, il maiorchino – ancora – nei discorsi della servitù. È questa, per Fabrizia, una porta sul mondo, l’accesso a un percorso proteiforme e mesmerico. Sono anni di benessere, trascorsi nella villa di Son Batle in compagnia della balia Dida, la stessa che segnerà il suo immaginario e la dicotomia – tanto presente nelle sue opere – del rapporto Madre-Figlia con le infinite sfumature.

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Dopo l’armistizio del ’43 fa ritorno in Campania (a Santa Maria di Massa Lubrense, il paese trasfigurato di Althénopis), e poi si trasferisce in Francia, uno dei “luoghi dell’anima” in cui si compie la sua formazione. Apprende una nuova lingua, legge i naturalisti, Stendhal, e si avvia al nomadismo. L’improvvisa morte del padre Ferruccio (1950), costringe la famiglia a tornare a Napoli, grande “balia” e ragione del cuore, città che la invita a partire ma che la segue «dovunque, come un’ombra», ed è forse l’unico posto in cui poter stare di casa. I tanti viaggi compiuti toccano tappe fondamentali, tra queste la Germania, con Francoforte, Monaco, Heidelberg. Impara il tedesco, inizia un nuovo lavoro, vive – ancora una volta – in una terra di mezzo, di cui con gioia frammista a pena, dà voce nel Taccuino edito nel 1987. Si affaccia, al contempo, l’urgenza della scrittura:

Mentre mi sottomettevo in Germania alla scuola degli adulti […] scoprivo che l’unico modo possibile per me di sfuggire a quella legge del mondo, verso la quale provavo una segreta ripugnanza: scrivere significava diventare adulta a modo mio, non loro.

Rientrata a Napoli, sposatasi con un aristocratico, inizia negli anni Sessanta e Settanta un attento lavoro di assistenza sociale, dando voce alle donne, agli emarginati, muovendosi tra il volontariato e l’esperienza militante. Risale a questo periodo l’inchiesta Napoli: i disoccupati organizzati (1977) e soprattutto il rapporto con la Nuova sinistra poi raccontato nel romanzo Un giorno e mezzo (1988). Il contatto con la città, i bambini, gli ultimi, le dà coraggio per diventare scrittrice. Nel 1981 licenzia Althénopis, opera cardine di quel decennio e splendida rievocazione emotivo-memoriale, giocata sul continuum dialettico fra narrativa e saggistica. Gli anni che seguono sono intensi e dolorosi, con la scrittura a far da collante. Fabrizia scompare per un malore in mare nel 2008, a Gaeta e poco più che settantenne.

Per iniziare: «Althénopis» (1981)

Folgorante esordio, Althénopis è il trionfo dell’ibridismo di genere, un’opera al limite tra autobiografia e lessico famigliare, memoir e indagine storica. Fabrizia Ramondino lo confeziona per tappe, mediante un percorso ondivago come il moto dei ricordi, spostando sezioni, rielaborando scene, intessendo con le sue fonti un muto dialogo. Fra Gadda e Proust, l’opera è già paradigma del narrare ramondiniano, sempre intessuto di reminiscenze letterarie nonché mirato al recupero dei dati mnesici, volti alla costruzione di un ‘oggi’ coerente, in cui sia possibile recuperare un rapporto sanato con le proprie ferite. La ridda di personaggi che anima questa “autoginografia” si compone di straordinarie figure femminili – su tutte la nonna, affetto e guida della Ramondino donna-scrittrice -, tutte frequentanti le zone del “sogno”, sospese pertanto tra immaginazione e veglia, realtà e disincanto.

fabrizia ramondino

La mescolanza tra memoria individuale e memoria politica dà voce, costantemente, alle lacerazione dell’io e al disagio del mondo, in un parallelismo che non conosce cesure, laddove persino lo sfondo geografico si fa cuore pulsante di un’anima in subbuglio. Tramata di un dialetto sottotraccia – che rivela l’amore per Napoli, città-balia di Ramondino -, la scrittura si fa leggera e straziante, intima e visionaria. Un’opera di indiscutibile potenza, da riscoprire nel suo pieno valore.

Per proseguire: «Star di casa» (1991)

A cavallo fra passato e presente – stretto tra Althénopis, dunque, e un diverso modo autobiografico – Star di casa si pone come campionario dell’anima napoletana, letta e ri-vissuta mediante un procedimento di associazione. La memoria procede ancora per mezzo di scarti emotivi, ma – come ricorda Lucamante – l’andamento rievocativo segue graficamente il modello di Leiris,

dove pensieri e episodi vengono numerati in una schedatura riportata testualmente e dove i ricordi si collegano ad altri ancora, anche questi raccolti e rilavorati in altri libri[4].

La scrittura, avvolgente e perturbante, conduce il lettore nell’universo ramondiniano, rivelando fantasie, mancanze, riminescenze letterarie dal carattere imponente (su tutti Goethe, Rilke, ma anche Proust, sino Brecht). Al centro sta la crescita intellettuale e umana di una donna che si intreccia, ancora una volta, con il cammino della città. La geldra di personaggi femminili – nonne, madri, balie – apre le porte a una poetica che si alimenta, ancora una volta, della sovrapposizione fra dimensione soggettiva e collettiva. Indimenticabile il lungo passo dedicato al Salotto napoletano, emblema di un tempo che fu e tentativo di preservazione di un mondo – ormai – irrimediabilmente cambiato.

Innamorati di Fabrizia Ramondino: «L’isola riflessa» (1998)

Memoir, autobiografia, riflessione storico-antropologica. L’isola riflessa trova il suo nucleo unificante nell’elaborazione della sindrome depressiva dell’autrice, qui condotta su un piano di raffinata corrispondenza. «L’isola è deserta – io stessa lo sono», e il muto dialogo con la condizione dei confinati di Ventotene dà vita a un racconto in cui la condizione di isolamento si fa foriera di nuove riscoperte. Il vuoto, che è sinonimo del disagio, della palude interiore, si riempie di alcool, cure, metafore poetico-letterarie.

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L’altalena che «sta solo giù», immagine del suo gorgo intimo ed esistenziale, corrisponde a un passato che si vuole obliare, lo stesso per cui «bisognava nascondere in fretta tanto la Risiera di San Saba quanto le foibe del Carso». L’operazione – slabbrata, intensa – mira pertanto a un recupero memoriale ad ampio raggio, a una cura dell’anamnesi che possa dar conto, nella parabola della vita, di un destino che – doloroso e irripetibile – è comunque il solo in cui si esprime la verità.


In copertina: Artwork by Madalina Antal
© Riproduzione riservata


Note
[1] F. Sepe, «Questi vetruzzi finiti sulla spiaggia mi sembrano tante vite umane, chissà da dove vengono». Intervista a F. Ramondino, in “Nuovi Argomenti”, luglio-settembre 2008, p. 45.
[2] N. Gruarin, Fabrizia Ramondino. La scrittrice riflessa, in “Doppiozero”, 23 giugno 2018.
[3] B. Alfonzetti, Scrivere in prima persona. Sui libri di Fabrizia Ramondino. In “L’Illuminista”, Fabrizia Ramondino, a cura di B. Alfonzetti – S. Sgavicchia, XV, 2015, p. 33.
[4] S. Lucamante, Tra romanzo e autobiografia, il caso di Fabrizia Ramondino, MLN, vol. 122, 1, 1997, pp. 108-109.

 


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Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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