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Giuseppe Mazzini

Il fascino di un intellettuale
sui generis: Giuseppe Mazzini

Le riflessioni di Giuseppe Mazzini su temi rilevanti, quali: il dolore, la vita, l'educazione e il dubbio.

17 minuti di lettura

Vi sono due luoghi in Liguria che meritano di essere visitati: due luoghi di detenzione e di sofferenza, due celle. La prima, quella in cui Giuseppe Mazzini fu rinchiuso, sul Priamar di Savona, dall’11 novembre 1830 al 2 febbraio 1831 e dove ideò la Giovine Italia; la seconda, quella della Torre di Palazzo Ducale a Genova, dove morì (suicidio?) il suo più caro amico, Jacopo Ruffini. Visitarle spiega, molto meglio della lettura di qualsiasi saggio storico, cosa volesse dire “carcere duro”, fa capire a quali privazioni, e in quale condizione di assoluta prostrazione, fossero costretti i prigionieri politici a quei tempi. E, soprattutto, permette anche di comprendere come l’ideologia mazziniana scaturisca dalla riflessione sul dolore, provato per sé e causato ad altri, dal riscatto del rimorso straziante e dalla volontà di continuare con rinnovata convinzione, contro il destino avverso, la propria lotta.

Dei quattro “Padri della Patria” – Vittorio Emanuele II; Giuseppe Garibaldi; Camillo Benso conte di Cavour; lui stesso – Mazzini è certamente il più complesso e il più discusso, anche quello meno relegabile entro i patri confini, e più naturalmente esportabile al di là dell’Italia. I giudizi su di lui furono e restano contrastanti: dalla formidabile pericolosità come avversario riconosciutagli da Klemens Von Metternich alla condanna senza appello di Cavour; dal cauto giudizio di Niccolò Tommaseo all’entusiasmo di Francesco De Sanctis; dalla sostanziale incomprensione di Michail Bakunin al giudizio più storicamente complesso di Denis Mack Smith, sino ad arrivare alle positive suggestioni che ne ricavarono Sun Yat-sen e Gandhi.

In tempi più vicini a noi destò scalpore il discorso pronunciato alla Camera nel 1985 da Bettino Craxi che accostò la figura di Giuseppe Mazzini a quella di Yasser Arafat, suscitando un ampio dibattito sul “terrorismo” mazziniano e ottocentesco in genere. A distanza da quel pretestuoso accostamento, dovrebbe essere possibile impostare con serenità di giudizio, una riflessione complessiva sull’opera di Mazzini e sul significato storico e morale del mazzinianesimo: invece, qualcuno, ha riproposto la provocazione del Mazzini terrorista (M. Moncada di Monforte, Vite Parallele. Giuseppe Mazzini e Osama bin Laden, 2005 Armando Ed. Roma) e persino un film recente come quello di Mario Martone (Noi credevamo, 2010) ha dato la stura ad altre polemiche.

Vale allora la pena rileggere quanto ha scritto Indro Montanelli, che lo ha definito «profeta inascoltato»:

«Mazzini era un sognatore […] ma una cosa la vedeva più realisticamente dei suoi realistici nemici moderati: che l’Italia non poteva essere fatta da un pugno di «notabili», per quanto numeroso fosse, e che se così si fosse fatta, non sarebbe stata vitale.[…] Era l’unico, o quasi, a sentire il bisogno di dare un contenuto popolare al Risorgimento, che senza di esso si sarebbe risolto in un’operazione di alchimia diplomatica. Badate, diceva, che se le masse non entrano da protagoniste nel suo processo di formazione, esse rimarranno estranee alla Nazione e un giorno ne diventeranno nemiche. Come di fatti è avvenuto».
(I. Montanelli, Storia d’Italia, vol. 5, 1831-1861, 1969, 1998 Rizzoli Milano).

Un aspetto essenziale, e ancora oggi fecondo del pensiero mazziniano, è proprio quello relativo all’educazione. Nel 1860 egli pubblicò, dedicandolo Agli operai italiani, un opuscolo dal titolo Dei doveri dell’uomo, nel quale sono contenute affermazioni che varrebbe la pena di meditare in questi nostri tempi di così grande confusione culturale:

«gli uomini sono creature d’educazione e non operano che a seconda del principio d’educazione che loro è dato […] Farvi migliori: questo ha da essere lo scopo della vostra vita[…] L’educazione è il pane dell’anima […] L’educazione si indirizza alle facoltà morali; l’istruzione alle intellettuali.[…] Senza istruzione l’educazione sarebbe troppo sovente insufficiente; senza educazione l’istruzione sarebbe una leva mancante di un pezzo d’appoggio […] Meritate ed avrete».

Come è immediatamente comprensibile, Giuseppe Mazzini educa all’impegno, al sacrificio, al “meritarsi” le cose, non ad aspettarsele come dovute o a reclamarle con prepotenza. È una voce austera. Ma dovremmo tornare a questa lezione nella scuola e nel lavoro e, anche e soprattutto, nella politica, proprio oggi che si fa un gran parlare – spesso a vanvera – di “meritocrazia”. Un educatore, per essere credibile ed autorevole, deve prima di tutto aver educato e continuare ad educare se stesso.

Giuseppe Mazzini
Giuseppe Mazzini

Ha scritto Adolfo Omodeo:

«Chi ha esperienza della storia capisce che siam di fronte non ad un filosofo, ma ad una di quelle personalità in cui pensiero e azione sono indistricabilmente intrecciate: profeti e apostoli che incarnano un momento dell’ideale umano, come i profeti d’Israele, l’apostolo Paolo, Maometto, Lutero; uomini la cui dottrina non può essere intesa se non compenetrata con la loro personalità e la loro intima esperienza. E, man mano che gli anni lo discostano da noi, la figura del Genovese, uscendo dagli oblii e dai dispregi dei contemporanei e della generazione immediatamente successiva, appare sempre più grande.[…] Sentiamo com’egli abbia ancora qualcosa da dire alla nostra età».
(A.Omodeo, La missione religiosa e politica di Giuseppe Mazzini in Difesa del Risorgimento, 1951 Einaudi Torino).

Bisogna, dunque, per capire Mazzini, far riferimento alla sua “intima esperienza”. C’è in particolare una pagina mazziniana che fa comprendere il travaglio interiore e il sofferto approdo ad una Weltanschauung che ha ancora molto da dirci oggi, come giustamente scrive Omodeo: quella che convenzionalmente intitoliamo La tempesta del dubbio.

Prima di analizzare il testo però, soffermiamoci un momento sul significato, filosofico ed esistenziale, del “dubbio”. Da quello metodologico e maieutico di Socrate alla svolta agostiniana del “dubito dunque sono” alla perentoria terzina dantesca (“Nasce per quello, a guisa di rampollo,/ a piè del vero il dubbio; ed è natura / ch’al sommo pinge noi di collo in collo”, Par. IV, 130-2) sino ad arrivare alla fondazione cartesiana del “cogito”, il dubbio ha una funzione straordinaria ed unica: è il pensiero mai pago, mai fermo, che si interroga, che incessantemente si mette in discussione. Diciamo con Bertrand Russell: «Il problema dell’umanità è che sciocchi e fanatici sono sempre così sicuri di se stessi, mentre le persone più sagge sono piene di dubbi»: affermazione oggi quanto mai attuale, nell’incredibile proliferare di fanatismo religioso che tante vittime sta assurdamente causando.

Giuseppe Mazzini il dubbio l’ha attraversato; o forse è più esatto dire che è il dubbio ad aver attraversato lui, con la furia improvvisa di una “tempesta” interiore, autenticamente romantica (un suggerimento: accostare questo brano all’ascolto della Quinta Sinfonia di Beethoven). Così scrive Mazzini:

«Fu la tempesta del dubbio: tempesta inevitabile, credo, una volta almeno nella vita d’ognuno che, votandosi a una grande impresa, serbi core e anima amante e palpiti d’uomo. […] Allora, in quel deserto, mi s’affacciò il dubbio. Forse io errava, e il mondo aveva ragione. Forse l’idea ch’io seguiva era sogno. E fors’io non seguiva una idea, ma la mia idea, l’orgoglio del mio concetto, il desiderio della vittoria più che l’intento della vittoria, l’egoismo della mente e i freddi calcoli d’un intelletto ambizioso[…]. Il giorno in cui quei dubbi mi solcarono l’anima, io mi sentii non solamente supremamente e inesprimibilmente infelice, ma come un condannato conscio di colpa e incapace d’espiazione. […]. Quante madri avevano già pianto per me! Quante piangerebbero ancora s’io m’ostinassi nel tentativo di risuscitare a forti fatti, al bisogno d’una patria comune, la gioventù dell’Italia. E se questa patria non fosse che una illusione? […] D’onde traeva io il diritto di decidere sull’avvenire e trascinare centinaia, migliaia d’uomini al sagrifizio di sé e d’ogni cosa più cara?»

Sorge il dubbio del completo fallimento, il terribile presentimento di aver agito solo per orgoglio e meschinità di calcolo, il rimorso di esser stato responsabile di tanti caduti, la causa delle lacrime di tante madri italiane. L’Italia, appunto: forse solo una sterile illusione, bisognava rassegnarsi e constatare l’esaurimento della sua fama e della sua storia.

Mazzini, come afferma egli stesso, “anatomizza” la sua anima, si sente ad un passo dalla follia «Io balzava la notte dai sonni e correva quasi deliro alla mia finestra, chiamato, com’io credeva, dalla voce di Jacopo Ruffini». Questo il rimorso dei rimorsi, il fantasma che compare, quasi come Banqo a Macbeth: più di tutto, si rivela insopportabile la consapevolezza di aver determinato la morte del suo più caro amico. La sua coscienza ne è straordinariamente turbata: basta nulla per farlo sussultare, per muoverlo al pianto; la neve che ha coperto il paesaggio gli pare «un lenzuolo di morte»; la gente che incontra gli sembra che lo guardi con pietà e, più spesso, con rimprovero. Il vertice di tutto ciò è espresso icasticamente: «l’anima incadaveriva». Poi avviene una sorta di miracolo, di agnizione interiore.

«Un giorno, io mi destai coll’animo tranquillo, coll’intelletto rasserenato, come chi si sente salvo da un pericolo estremo.. Ma quel mattino la natura pareva sorridermi consolatrice e la luce rinfrescarmi, quasi benedizione, la vita nelle stanche vene. E il primo pensiero che mi balenò innanzi alla mente fu: questa tua è una tentazione dell’egoismo: tu fraintendi la vita».

Il risveglio, non più con la sensazione penosa di riprendere il carico dei dolori del giorno, ma come una rivelazione improvvisa: quella di aver frainteso la vita, di essersi cioè fermato ad una visione parziale, insufficiente. Essa non è, non può essere, solo una vicenda di nascite e morti, di entusiasmi e delusioni. Páthei máthos, direbbe Eschilo: attraverso il dolore l’apprendimento. O anche, con Ludwig van Beethoven: Durch Leiden, Freude, attraverso le sofferenze, la gioia.

Il dubbio gli insegna a comprendere che la vita non è né “contemplazione”, come crede la mistica indiana, né “espiazione” come vuole il cristianesimo, né “ricerca della felicità e del benessere” come pretende il materialismo dilagante. La Vita è Missione. Ogni altra definizione è falsa e travia chi l’accetta.

«Religione, Scienza e Filosofia, disgiunte ancora su molti punti, concordano oggimai in quest’uno: che ogni esistenza è un fine.[…] E quel fine è uno: svolgere, porre in atto tutte quante le facoltà che costituiscono la natura umana, l’umanità, e dormono in essa.[…] La Vita è Missione: e quindi il Dovere è la sua legge suprema.[…]Quando l’anima vostra, o giovani fratelli miei, ha intravveduto la propria missione, seguitela e nulla v’arresti: seguitela fin dove le vostre forze vi danno: seguitela accolti dai vostri contemporanei o fraintesi, benedetti d’amore o visitati dall’odio, forti d’associazione con altri o nella tristissima solitudine che si stende quasi sempre intorno ai Martiri del Pensiero».

La vita come “missione”: concetto importante e fecondo. Non una novità assoluta. Già Cicerone aveva parlato di un munus che però, secondo lui, riguardava soltanto i politici di professione, gli optimates; ma è in questo periodo storico, fine Settecento e primo Ottocento, che questo concetto risorge a nuova vita e nuovi significati.

Lo troviamo in Ugo Foscolo – autore amatissimo da Giuseppe Mazzini – che ci insegna che il nostro compito di uomini è quello di dare un senso all’insensatezza dell’esistere; lo troviamo in Johann Gottlieb Fichte, ne La missione del dotto, presentando quest’ultimo come «l’educatore dell’umanità» – e qui è notevole la consonanza con Mazzini. Il quale, però, lo amplia a dismisura, lo vede come il principio che anima ogni individuo, ogni nazione, l’Umanità intera.

Il finalismo mazziniano è quello del dovere: dovere di purificazione interiore da ogni scoria di egoismo; di tensione intellettuale verso la comprensione del proprio posto e del proprio ruolo nella società e nella storia; di impegno costante e risoluto nella realizzazione di questa missione, certamente filantropica, perché l’uomo è nato per esser utile all’uomo.

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Redazione

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  1. […] Dei quattro “Padri della Patria” – Vittorio Emanuele II; Giuseppe Garibaldi; Camillo Benso conte di Cavour; Giuseppe Mazzini è certamente il più complesso e il più discusso, anche quello meno relegabile entro i patri confini e più naturalmente esportabile al di là dell’Italia.  I giudizi su di lui furono e restano contrastanti. Continua a leggere… […]

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