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Myanmar, il fallimento di una transizione che però ha messo radici

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9 minuti di lettura

Sin dall’indipendenza, ottenuta dalla Gran Bretagna nel 1948, quella della Birmania (Myanmar) è una storia complessa e travagliata e che, soprattutto, non sembra trovare pace. I militari hanno mantenuto il potere per ben 48 dei 72 anni che sono passati da quando Sua Maestà ha formalmente rinunciato a uno degli ultimi possedimenti della corona nel sudest asiatico, e la condizione socioeconomica del Paese è certamente difficile sotto molti punti di vista. Prima di addentrarsi negli ultimi avvenimenti però, vale la pena fare il punto su due aspetti estremamente importanti per capire le dinamiche che scuotono il Paese, vale a dire da una parte l’estrema eterogeneità della popolazione, e dall’altra la conformazione geografica che la pone al centro di alcune dilemmi certamente non facili da risolvere, soprattutto per chi ha intenzione di governare il Paese facendo a meno del pugno di ferro tipico di una giunta militare. Il colpo di Stato che, ancora una volta, ha deposto dopo circa un decennio il pur debole governo democraticamente eletto e guidato da Aung San Suu Kyi potrebbe però questa volta non trovare vita facile come invece è accaduto in passato per alcuni precisi motivi.

Il fatto che poi l’esercito abbia dato apertamente sfogo all’ingordigia di potere che lo contraddistingue potrebbe avere anch’esso ripercussioni sull’andamento degli eventi. Tutti erano a conoscenza che si trattasse di una transizione di tipo top down dove i militari si erano comunque tutelati, garantendosi una quantità riservata di seggi in parlamento utile a bloccare qualsiasi disegno di revisione della costituzione a loro sfavorevole e che, comunque, pur sotto il governo Suu Kyi, controllavano in ogni caso i principali snodi del potere dai ministeri della difesa, dell’interno, dell’economia e degli esteri. Il fatto che non gli sia bastato, però, potrebbe non essere senza conseguenze.

Birmania Myanmar aung san suu kyi
Photo by Alexander Schimmeck on Unsplash

Quello del Myanmar è un puzzle regionale complesso

Il tema della composizione etnica birmana è molto importante nel provare a districarsi nell’instabilità politica che caratterizza il Paese. L’etnia principale è sicuramente quella Bamar, ed insieme a circa altre sette arriva a raggruppare circa 40 dei 54 milioni di abitanti del Myanmar. Tutte le altre etnie sono residuali, ma come è facile notare costituiscono comunque una fetta importante della composizione demografica birmana.

L’aspetto importante in tutto ciò risiede però nel fatto che le diverse etnie, o almeno le principali otto, sono molto radicate sul territorio, in uno Stato che vorrebbero in forma ampiamente federale e che invece resta centralizzato e sotto il tallone dell’etnia dominante, quella Bamar appunto, di cui l’esercito è diretta emanazione. Negli anni è stato infatti precluso l’accesso alle sfere più alte dell’amministrazione statale a chi non provenisse dall’etnia socialmente dominante. Alcune di queste popolazioni minori sono caratterizzate anche dalla presenza di milizie regionali come Unione Nazionale Karen (KNU), il più antico gruppo armato etnico del Myanmar, od il Consiglio per la Restaurazione dello Stato Shan (RCSS). Il quadro demografico è quindi estremamente intricato. L’ex presidente ora in carcere, con il suo governo, aveva puntato molto sulla progressiva federalizzazione del Paese accattivandosi le simpatie di ampi strati della popolazione che, non per nulla, le hanno sempre dimostrato una fiducia pressoché totale nelle urne. Il fatto che l’etnia dominante si sia dimostrata così oltremodo restia a lasciare, anche solo parzialmente, le redini del potere è certo un cattivo segnale per il Paese che corre ora il rischio concreto di scivolare lentamente verso una guerra civile dalle conseguenze difficilmente prevedibili. In tutto ciò è importante segnalare il fatto che la Cina, vicino ingombrante e con diverse frecce al suo arco per indirizzare la politica interna birmana, controlla indirettamente alcune delle milizie armate che stazionano al confine tra i due paesi, e non è ancora chiara la posizione che prenderà sullo scacchiere.

Le reazioni internazionali

A livello internazionale la situazione è altrettanto intricata. Il primo punto da sottolineare è certo il fatto che, a golpe avvenuto, Cina e Russia, in sede di consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, si sono opposte ad una risoluzione di condanna internazionale. A una prima lettura si potrebbe leggere tra le righe un silenzioso appoggio di Pechino al golpe in Myanmar, ma non va dimenticato che la leadership cinese aveva posto il veto anche quando sotto accusa era la leader ex Nobel per la pace per la gestione della questione Rohingya, da molti definita un vero e proprio genocidio. Parigi, che nell’area si sente sempre in dovere di dire la sua in vece di un non troppo felice passato coloniale, e gli Usa di Joe Biden hanno minacciato di porre sanzioni internazionali qualora non si tornasse ad un governo democraticamente eletto, ma si tratta di una strada difficile da attuare.

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La strada da percorrere sembrerebbe invece essere quella della diplomazia, e questo per una ragione ben chiara: la Birmania (Myanmar) è stata, nel corso dell’ultimo decennio, grazie alle aperture del governo democratico, tra le destinazioni privilegiate degli investimenti esterni nell’area, con il Giappone e Singapore che su questo piano hanno staccato nettamente la Cina. Anche l’Eni, per dare un’idea del coinvolgimento occidentale, è fortemente presente nel Paese e una condizione di incertezza interna potrebbe far fuggire pregiata valuta straniera di cui il Paese ha estremamente bisogno. Altro tema caldo da questo punto di vista è quello delle infrastrutture, in particolare dello sfruttamento del fiume Irrawaddy tanto caro alla Cina nella costruzione di quel corridoio commerciale sino-birmano che permetterebbe a Xi di avere sbocco sull’Oceano Indiano tagliando fuori lo stretto di Malacca, controllato dagli Usa.

In tutto questo quadro, estremamente frammentato e dove il volere delle parti in causa non sembra essere sempre chiaro e prevedibile, il popolo birmano sembra però agire in modo chiaro e determinato. Alcuni giovani sono cresciti nel corso dell’ultimo decennio in un regime certamente più democratico e tollerante della giunta militare, ed anche i più anziani sembrerebbero essere recalcitranti ad abbassare la testa ancora una volta, come accaduto in passato, e a subire le dinamiche di potere di cui l’esercito non rinuncia ad esserne il fulcro.

Le proteste di piazza sono iniziate in modo timido già il giorno dopo il golpe, avvenuto il primo febbraio. I primi a scioperare sono stati i sanitari impegnati nella lotta contro l’emergenza pandemica, ma la protesta si è allargata velocemente e nelle principali città del Paese sono state, e continuano ad essere, decine di migliaia le persone scese in strada a protestare contro gli idranti e i lacrimogeni. Certamente l’esercito non si aspettava una partecipazione di questo tipo, forse il fiore della democrazia nell’ultimo decennio ha messo radici in Myanmar più velocemente di quanto si aspettasse, ma la situazione appare per ora comunque bloccata e la soluzione tutt’altro che dietro l’angolo.

Immagine di copertina: Photo by Jesse Schoff on Unsplash

 


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Michele Corti

Nato a Lecco nel 1996, studente di Scienze Politiche. Amo la montagna in ogni sua veste, il vento in faccia in bicicletta, la musica e provo a destreggiarmi nella politica internazionale, cosa fortunatamente più semplice rispetto a quella italiana."

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