Il 30 settembre Vladimir Putin aveva annunciato, da una sfarzosa sala del Cremlino, l’annessione di quattro province ucraine alla Russia. Pochi giorni prima si erano tenuti nei territori controllati dalle truppe russe dei referendum farsa tra la popolazione, che secondo gli occupanti avrebbe risposto con un plebiscito alla prospettiva di ricevere il passaporto russo. Poco dopo molti, giustamente, cominciarono a chiedersi quali sarebbero state le conseguenze del riconoscimento ufficiale di quelle terre come parti a tutti gli effetti della Federazione. Alcuni ipotizzarono che fosse il primo passo verso l’utilizzo sul campo di ordigni tattici nucleari da parte della Russia, vista la dottrina che ne permetterebbe l’impiego in risposta ad attacchi, anche convenzionali, ma diretti contro un territorio formalmente a tutti gli effetti russo dopo il voto della Duma. Altri invece interpretarono il fatto come una debolezza, un modo per nascondere, ancora una volta, gli insuccessi che da alcuni mesi stanno raccogliendo le truppe sul campo dietro al nazionalismo su cui, in fin dei conti, si fonda davvero la guerra in Ucraina.
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Di nuovo a Kherson
Poco più di un mese più tardi le truppe ucraine, dopo aver ottenuto alcuni importanti successi nel nord est del paese, hanno riconquistato la città di Kherson. Si tratta probabilmente della più importante vittoria dall’inizio della guerra in Ucraina, se non dal punto di vista strategico, sicuramente per il significato che la città porta con sé. Si tratta della prima ed unica capitale provinciale conquistata dai russi da febbraio, quando in una notte decisero di riportare l’orologio della storia indietro di oltre trent’anni. Le forze ucraine, dopo circa un mese di incessanti combattimenti, e facendo larghissimo uso dell’artiglieria occidentale, sono riuscite a mettere in fuga i russi sull’altra sponda del Dnepr, tagliando via via tutte le linee logistiche nemiche, logorandone la capacità di operare ed il morale. Dopo i durissimi combattimenti che si sono svolti soprattutto nelle aree circostanti la città, questa era divenuta per i russi una testa di ponte molto difficile da rifornire e quindi da tenere nel lungo periodo. Per questo il generale Surovikin, che al momento sovrintende tutte le operazioni militari della guerra in Ucraina, ha dato l’ordine di abbandonare la città. Anche il ponte Antonovsky, costantemente sotto il tiro degli Himars, era diventato inutilizzabile. Nemmeno i ponti di chiatte allestito per sostituirlo erano più un’opzione fattibile. L’artiglieria occidentale ha dato la possibilità all’esercito ucraino di infliggere danni tali alla logistica nemica da obbligare i russi alla ritirata senza asserragliarsi in città, salvandola così dalle devastazioni che hanno distrutto Mariupol. Inoltre, sembra che i russi prima di andarsene abbiano evacuato una parte dei civili, portandoli probabilmente in Crimea.
Anche il presidente Zelensky, che raramente si muove da Kiev, si è recato subito nella città liberata a sottolinearne l’importanza strategica ma non solo. Riprendersi Kherson era diventata per Kiev anche una questione di orgoglio, e la vittoria ha lasciato sicuramente il segno tra i soldati. Prova ne è il fatto che subito dopo, l’esercito ucraino ha iniziato ad incalzare i russi in ritirata, senza dargli il tempo di allestire una linea di difesa efficace e sfruttando in modo efficace il momentum di cui gode. Sembrerebbe che Kiev voglia riprendersi ogni centimetro di territorio di cui è capace finché le condizioni lo permettono, spingendo i russi verso la Crimea dalla quale avevano mosso ormai otto mesi fa con l’obiettivo di spingersi probabilmente fino ad Odessa. Così facendo poi, gli ucraini sembra abbiano ripreso il controllo del bacino strategico di Nova Kakhovka, invaso idrico che controlla il flusso di acqua potabile verso la Crimea.
A questa sconfitta i russi non hanno tardato a rispondere, e proprio durante il G20 di Bali hanno lanciato su tutta l’Ucraina oltre 90 missili diretti su obiettivi civili e militari. Si tratta dell’ennesima reazione rabbiosa che arriva dopo ogni sconfitta sul campo. Oltre 70 di questi sono stati però abbattuti dai sistemi di difesa occidentali, soprattutto tedeschi ed americani che l’Ucraina ha ora a disposizione, diminuendo molto l’efficacia dell’attacco.
I missili caduti in Polonia
È legato a doppio filo a questa reazione rabbiosa l’altro fatto avvenuto pochi giorni fa, quando due missili caduti poco oltre il confine in territorio polacco hanno ucciso due uomini al lavoro nei campi. Inizialmente il governo polacco ha dichiarato che due missili erano caduti in un villaggio vicino al confine con Ucraina e Bielorussia, senza specificarne la provenienza ma asserendo che le indagini fossero in corso. Subito dopo, il presidente Zelensky ha incolpato i russi del fatto, provando ad alzare la tensione nella speranza probabilmente di ricevere ancora più supporto nella guerra in Ucraina. Gli Stati Uniti hanno dichiarato di non essere a conoscenza dell’esatta provenienza dei missili, e che erano al fianco della Polonia per trovare una soluzione, evitando di attaccare frontalmente il Cremlino. La notte tra il 15 ed il 16 novembre è stata molto probabilmente una delle notti più calde degli ultimi decenni per la diplomazia, mentre già si leggevano richiami all’articolo 4, quando non al 5, dello statuto NATO. Le indagini sembra abbiano accertato che i missili caduti in Polonia fossero degli s300 di origine russa ma appartenenti al sistema di difesa antimissile ucraino, forse andati fuori rotta nel cercare di intercettare uno dei missili russi, forse partiti invece con l’obiettivo di creare un casus belli o comunque alzare ulteriormente la tensione tra il blocco occidentale e la Russia in un momento cruciale della controffensiva Ucraina. Non è chiaro che cosa sia esattamente successo durante quella notte, ma dalle reazioni, ucraine, russe ed occidentali si possono dedurre alcune cose: gli Stati Uniti sono disposti a supportare lo sforzo bellico ucraino ma a delle condizioni ben chiare. Il superamento di alcune linee rosse, come avvenuto nei casi dell’attentato alla figlia di Dugin o con il ponte di Kerch, non è ben gradito a Washington che vorrebbe mantenere la guerra in Ucraina sui binari su cui si trova, senza allargarla ulteriormente. Anche gli altri membri della NATO si sono dimostrati tiepidi nel trarre conclusioni affrettate. Anche i polacchi, i più ferventi sostenitori delle cause anti-russe, si sono guardati bene dallo sfruttare l’accaduto anche solo per proporre un blocco aereo o fare un ulteriore step nella qualità e quantità degli armamenti da inviare all’Ucraina. In secondo luogo, Zelensky ne è uscito ridimensionato sul piano della credibilità internazionale, viste le reiterate richieste di reazione anche quando la versione occidentale era già sul tavolo da diverse ore. Infine, la Russia ha sfruttato l’occasione per ridicolizzare proprio il presidente ucraino ed al contempo ribadire il proprio impegno a non allargare il conflitto oltre il confine ucraino ad occidente.
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Si tratta di un periodo molto complesso della guerra in Ucraina. Alcuni hanno iniziato a parlare di trattative in corso tra esponenti di altissimo livello degli apparati e del governo americano con i corrispettivi russi. Per ora si tratta solamente di voci, ma è anche a causa di queste voci che il presidente ucraino sta cercando di massimizzare l’avanzata sul campo nonostante l’inverno stia già provocando dei grattacapi agli eserciti. Molte delle aree interessate sono paludose, il freddo inizia a farsi sentire nelle tende e la campagna di bombardamenti ha lasciato probabilmente decine di milioni di civili senza luce o riscaldamento. È probabile che la situazione sul campo si stabilizzi nelle prossime settimane, per poi tornare più dinamica con l’arrivo della primavera, quando i russi, leccatisi le ferite, potrebbero tornare all’attacco.
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