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La Russia è un impero che non riusciamo a capire

Cosa rende Mosca così diversa da Londra, Berlino, o da Parigi? Quali sono le radici dell'incomunicabilità tra l'Occidente e l'ultimo grande impero del Novecento?

11 minuti di lettura

Negli anni sessanta del diciottesimo secolo, Caterina la Grande, imperatrice di Russia dal 1762 alla morte, volle racchiudere in un testo, uno dei primi e più innovativi per l’epoca, alcuni principi ideali che avrebbero dovuto essere alla base dell’azione di governo e della società russa in generale. L’imperatrice volle scrivere di proprio pugno le pagine del Nakaz, e si dice che ci lavorò incessantemente per due lunghi anni, tutte le mattine fino a che non fu soddisfatta del lavoro e ne spedì una copia a Federico II di Prussia ed una Voltaire.

Il testo fu infatti fortemente influenzato dall’illuminismo francese, e da due esponenti in particolare: Montesquieu, con ampie parti direttamente riconducibili allo Spirito delle leggi e Denis Diderot, con cui la sovrana intratteneva una fitta corrispondenza. Nonostante ciò, il testo di Caterina sarà fortemente criticato proprio da Diderot, soprattutto a causa del preambolo che apriva l’opera e che suonava all’incirca così:

La Russia è una potenza europea, ma la vastità delle sue dimensioni fa sì che possa essere compresa solo a livello mondiale. Essa contiene infatti 32 gradi di latitudine e 165 di longitudine sul globo terrestre. Quest’enorme estensione territoriale, determina il modo in cui è governata: il sovrano è assoluto, perché solo poteri assoluti concessi ad un’unica persona sono appropriati ad un impero tanto vasto.

Per il radicale illuminista francese «la prima frase di un codice ben fatto dovrebbe vincolare il sovrano, e questo documento evita espressamente di farlo». Ora, potrebbe essere interessante addentrarsi nell’analisi di un testo che ha influenzato, più o meno direttamente, altri codici, dichiarazioni e costituzioni che nell’arco di pochi anni o decenni da quel momento avrebbero visto la luce in Francia, negli Stati Uniti, ad Haiti o in Svezia sull’onda di rivoluzioni e guerre civili. Il dato, però, su cui è forse più interessante su cui soffermarsi ora, riguarda la descrizione che la sovrana fa del paese che da tedesca si era trovata a governare, del quale parla come un impero vasto al punto da essere governabile solo attraverso poteri forti e incontrastati. Sono passati circa duecentocinquanta anni da quando Caterina diede alle stampe la sua opera e sembra che queste considerazioni siano valide ancora oggi. Escludendo la breve parentesi tra il crollo dell’Unione Sovietica ed il 1999, anno in cui Vladimir Putin fu nominato primo ministro da Borís Nikoláevič Él’cin, l’esercizio del potere in Russia è sempre stato caratterizzato da una fortissima spinta accentratrice, controllo dell’informazione, restrizioni a libertà di parola, riunione e manifestazione.

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Forse la relazione tra la vastità del territorio russo e la forma di governo richiesta per controllarla adeguatamente non è così lineare come enunciava Caterina nella sua opera, ma la Russia resta di fatto l’ultimo impero sopravvissuto al Novecento.

La cultura russa, la religione, la lingua, i suoi interlocutori, sono tutti europei. I grandi classici della letteratura sono amati ed apprezzati in occidente molto più di quanto non lo siano in Cina, Mongolia o in Asia centrale. La storia ed i miti russi si intrecciano in modo inestricabile con il Vecchio Continente, a partire da Pietro il Grande, dalla stessa Caterina, dagli ultimi zar e dalle loro strettissime parentele con i monarchi di mezza Europa, dalle vittorie e dalle sconfitte militari che hanno forgiato il mito dell’Armata russa contro Napoleone, l’Esercito britannico, la Wehrmacht. Di fatto, tutto ciò che è oltre gli Urali è frutto dell’appropriazione e dell’assoggettamento di quelle terre avvenute nel corso dei secoli; quando popolazioni di origine mongola, cinese, giapponese o centro asiatica, spesso poco organizzate, nomadi o senza una loro statualità intesa nel senso occidentale, si sono viste soverchiate dalla spinta espansionistica di una popolazione che con loro non c’entrava nulla, o poco più. Per usare un eufemismo, è molto più comprensibile, sebbene non accettabile, il concetto implicitamente più volte espresso da Putin che la Russia dovrebbe comprendere tutti i territori laddove si parli russo, Ucraina compresa, che non il dominio de facto di metà del continente euroasiatico dove le popolazioni sono state forzatamente russificate con più o meno successo nel corso dei secoli, ma dove nonostante ciò si continuano a parlare idiomi locali, a seguire tradizioni che a Mosca non di rado sono giudicate con una punta di disprezzo.

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Come in molte delle guerre combattute da imperi, a pagare il prezzo maggiore, almeno fino alla recente mobilitazione semi-generale ordinata dal Cremlino, sono state le popolazioni subalterne all’interno della Federazione. Giovani proveniente dalla Buriazia, Yakuzia, Daghestan, Cecenia muoiono come morivano soldati indiani, algerini o del sud est asiatico durante i due conflitti mondiali, come morivano gli ungheresi sulle vette delle Alpi tra il 1915 ed il 1918, come quel gladiatore che, durante l’Impero di Marco Aurelio, Roma non l’aveva mai nemmeno vista. I figli di Mosca e San Pietroburgo non sono i figli di Ulan-Udė, capitale della Repubblica autonoma dei Buriati, né di Makhachkalà, capitale del Daghestan, la cui voce si perde nelle steppe siberiane o tra le montagne del Caucaso. Una Russia democratica è quindi vista dalla grandissima maggioranza della classe dirigente come la via migliore, e probabilmente anche più veloce, per tornare ad essere la nazione che era prima del diciottesimo secolo, quando anche la Kamčatka entrò, per ultima, a far parte dei territori imperiali.

Tutto questo fondamentalmente è a causa di tre fattori: l’enorme espansione territoriale e la decentralità di Mosca nel sistema, l’esiguità della popolazione, che rende quelle zone, oltre gli Urali ma anche nella fascia a sud, al confine con le repubbliche centro asiatiche e caucasiche, difficilmente controllabili e la ricchezza di materie prime che queste zone spesso nascondono sotto le loro terre, che potrebbero, nel tempo essere oggetto soprattutto delle mire cinesi, che disporrebbero invece della popolazione, delle risorse e della capacità di sfruttarle. Si tratta di un progetto di ampio respiro, ma ben presente agli strateghi del PCC, che non guardano mai, a differenza nostra, al futuro fermandosi ai prossimi 10 o 15 anni.

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Anche le mire giapponesi su molte delle isole dell’estremo oriente russo sono note, ed un giorno otterranno una risposta. Questa spinta accentratrice ed autoritaria da parte di Putin è aumentata soprattutto per due motivi, entrambi da ricercare a cavallo degli anni Novanta e Duemila. Il primo riguarda il momento in cui la Russia ha raggiunto il picco di massima debolezza, e quindi ha corso il rischio maggiore di scomparire per come la conosciamo, ovvero durante le sperimentazioni democratiche e di libero mercato di Borís Nikoláevič Él’cin, per il fallimento delle quali sull’occidente gravano alcune responsabilità. Si trattò fondamentalmente di una shock therapy andata peggio del previsto, considerato anche l’insolito paziente. Il secondo riguarda il fallimento dei dialoghi per l’inclusione della Russia in un più ampio dialogo intraeuropeo, al quale molti, anche da parte russa sia chiaro, non hanno mai davvero creduto, senza contare Washington.

Ora, con il senno di poi sembra che Mosca e l’Occidente si parlassero, o almeno si capissero molto di più quando a dividerli vi era una cortina di ferro. Mosca al tempo era il centro di un impero che l’Occidente le riconosceva tacitamente, altrimenti non si spiegherebbe l’inazione di fronte ai carri armati a Budapest, a Praga o alle violente repressioni in Polonia e Germania. Ora si tende a pensare la capitale russa come il centro di uno Stato, con i limiti che questo dovrebbe comportare, ma così non è, soprattutto nella testa dei russi, la maggioranza dei quali crede invece che l’eredità di ciò che furono pesi ancora sulle loro spalle.

Mosca non è Berlino, Vienna o Parigi, e non lo sarà mai finché controllerà un territorio tanto vasto e diverso al suo interno come quello descritto da Caterina nel Nakaz. E quando la paura di crollare è forte, ogni impero si chiude in sé stesso ed affila le armi. Lo insegna la storia, con l’unica eccezione costituita dall’Impero britannico. Una dissoluzione pacifica non è mai la prima delle opzioni.

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Michele Corti

Nato a Lecco nel 1996, studente di Scienze Politiche. Amo la montagna in ogni sua veste, il vento in faccia in bicicletta, la musica e provo a destreggiarmi nella politica internazionale, cosa fortunatamente più semplice rispetto a quella italiana."

1 Comment

  1. Seguo con interesse ma mi piacerebbero esposizioni più organiche.

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