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Cosa ha detto Hume su religione e tradizione

Che cos'è la tradizione? E questa è necessariamente legata alla religione? No, direbbe Hume. E rileggere il filosofo scozzese può essere utile ancora per orientarci nel dibattito politico contemporaneo.

6 minuti di lettura

In una conferenza pronunciata a Oxford nel 1924 e pubblicata sotto forma di pamphlet nel 1926 il grande economista John Maynard Keynes afferma «io non so cosa renda un uomo più conservatore, non conoscere nulla tranne il presente o nulla tranne il passato»1. Nel nostro immaginario collettivo l’individuo qualificabile come “conservatore” costruisce le sue idee, la sua visione del mondo, a partire dai pilastri sacri della tradizione, dei valori antichi e, soprattutto, della religione. Nella storia della filosofia David Hume si è scagliato contro questa concezione (oggi generalmente di senso comune) che lega, indissolubilmente, religione e tradizione. D’altronde, è proprio il filosofo scozzese a ricordarci che esistono due classi di pensatori: quelli superficiali e quelli astrusi; «quest’ultima classe è di gran lunga la più originale»2 poiché ribalta i giudizi del senso comune e «i suoi esponenti suggeriscono spunti e sollevano difficoltà che […] possono condurre a scoperte preziose»3.

Abitudine e tradizione per David Hume

Nella gnoseologia ed epistemologia humeana -che, tradizionalmente, occupa la parte centrale della sua riflessione- un ruolo fondamentale è assegnato all’abitudine. Secondo il pensatore di Edimburgo solo attraverso essa noi riusciamo a costruire un ordine regolare di concetti, il suo ruolo principale è infatti quello di permettere il passaggio da un’idea determinata ad un’altra connessa nel momento in cui un’impressione data “risveglia” l’idea relativa. In quanto abituati noi formuliamo delle credenze (belief), riponiamo fiducia nel fatto che ad A seguirà B poiché solitamente ciò succede.

Nel campo delle istituzioni sociali il ruolo dell’abitudine si declina nella forma della tradizione. Ciò emerge con evidenza nel momento in cui Hume discute le ragioni dell’obbedienza verso lo Stato e le circostanze che permettono la trasgressione delle regole.

Il filosofo scozzese era lontano sia dagli artifici dei contrattualisti «[che] intendevano stabilire un principio perfettamente giusto e ragionevole; sebbene il principio su cui cercavano di fondarlo fosse fallace e sofistico»4 sia dai sostenitori dell’obbedienza passiva a prescindere da qualsiasi condizione. La sua posizione era, per certi versi, intermedia: la disobbedienza è spesso legittima d’innanzi ai più crudeli tiranni ma, nella gran parte dei casi non ci ribelliamo, la rivoluzione è extrema ratio.

Secondo Hume l’origine della nostra tendenza si radica nei medesimi processi mentali che ci portano ad asserire che domani il sole sorgerà:

Soltanto il tempo rende solido il loro diritto; e, agendo gradualmente sulle menti degli uomini, li riconcilia all’autorità, facendola sembrare giusta e ragionevole. Niente più dell’abitudine riesce a suscitare sentimenti o a influire su di noi, o rivolge con maggiore intensità la nostra immaginazione verso un oggetto. Quando siamo abituati da molto tempo a obbedire a una serie di uomini, quell’istinto generale, o tendenza, per cui supponiamo che un obbligo morale accompagni la lealtà, assume facilmente questa direzione, e sceglie quella serie di uomini come suo oggetto.

D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p. 1097
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A. Ramsay, Ritratto di David Hume, olio su tela, 1766

Funzione catartica ed emancipatrice della storia

Dall’analisi precedente emerge il potere “catartico” del tempo, l’abitudine e la tradizione hanno il preciso scopo di sedare le passioni rovinose e permettere l’instaurazione di un ordine razionale. Progressivamente «il costume e l’abitudine agiscono sulle docili menti dei figli, rendendoli coscienti dei vantaggi che possono ottenere dalla società, e intanto li preparano gradualmente a viverci, appianando le spigolosità e le affezioni inconsulte che impediscono tale associazione»5.

Parallelamente, Hume sottolinea il carattere emancipatorio della storia (Keynes, citato in apertura, coglie il medesimo punto e afferma: «uno studio della storia dell’opinione è necessariamente preliminare all’emancipazione della mente»6). Lo studio del passato allarga enormemente i confini della nostra conoscenza, andando a formare quello che è il carattere principale di ciò che noi chiamiamo “erudizione” senza, al contempo, allontanarci dalla giusta e reale (in quanto storicamente manifesta) considerazione del vizio e della virtù.

Hume mostra anche una sua tendenza che potremmo definire “protofemminista“: nell’apertura dell’essay dedicato allo Studio della storia7 consiglia quest’attività a tutto il genere umano e, specialmente, alle donne che, attraverso la lettura degli eventi del passato, arriveranno a capire il reale corso del mondo e comprenderanno la scarsa differenza che separa il loro genere da quello maschile.

Il ruolo della religione secondo Hume

Si potrebbe accusare Hume di proporre una filosofia politica conservatrice sostenitrice di una riconciliazione dell’individuo con lo stato di cose presente, di uno “scendere a patti” con la realtà data e dell’impossibilità di qualsiasi afflato rivoluzionario. Per quanto questo rimprovero sia ben fondato, bisogna considerare che l’intero edificio filosofico di Hume ha un preciso nemico: la religione.

Come abbiamo detto in apertura, Hume è un critico della diade religione-tradizione, fortemente affermata nel nostro immaginario politico. Contrariamente alla forza catartica e calmante della tradizione, la religione è vista da Hume come un’anti-catarsi, come una pericolosa stramberia partorita dalle menti degli umani, al punto che «non è permesso giudicare della civiltà o della saggezza di un popolo, o anche di singole persone, dalla grossolanità o dalla raffinatezza dei loro princìpi teologici»8 e «gli errori in materia di religione sono pericolosi; quelli in materia di filosofia soltanto ridicoli»9.

La religione, secondo Hume, è viziata fin dalla sua origine. Le idee religiose «non nacquero dalla contemplazione della natura, ma dall’interesse per gli eventi della vita, dalle speranze e dai timori incessanti che assediano lo spirito umano»10. Fomentando le passioni negative da cui si origina, la religione diventa diametralmente l’opposto della tradizione descritta prima; se da questa nasceva la civiltà, allora dalla religione sorge la barbarie che, per Hume, corrisponde all’incapacità di costruire schemi socio-culturali accettabili (ovvero essere un «governo di leggi e non di uomini»11).

La “storia naturale” della religione

Secondo Hume la religione non solo è l’opposto della tradizione e, nella gran parte dei casi, l’aizzatrice delle passioni più rovinose e delle più irrazionali tendenze degli uomini, ma essa è, addirittura, priva di storia. Certamente, né Hume né nessun altro potrebbe mai dubitare dell’antichissima origine delle credenze religiose; l’accusa dell’autore, nella Storia naturale della religione, è di aver avuto una storia senza progresso.

Il passaggio da politeismo a monoteismo non è stato un avanzamento culturale ma semplicemente un riproporsi delle medesime “follie” in forme diverse, la storia della religione conosce soltanto un «flusso e riflusso di politeismo e teismo»12 in cui elementi di una e dell’altra forma si mescolano, si confondono e si incrociano in una totalità disordinata e irrazionale.

Conclusione: Hume e i conservatori d’oggi

Alla luce di quanto detto potremmo definire Hume un illuminista conservatore o tradizionalista, in forza del grande valore riconosciuto alla tradizione e alla sferzante critica della religione. Nessun autore è riuscito a separare a tal punto il valore della tradizione dai princìpi della religione (forse, solo Friedrich Nietzsche ha raggiunto questo livello).

L’analisi di Hume mina profondamente l’idea di una necessaria diade tradizione-religione o, meglio, apre la possibilità ad una contrapposizione della tradizione alla religione nel campo sociale e politico. Questo discorso sembra di profonda attualità se consideriamo quanto avvenuto di recente con la sentenza Roe vs Wade; i gruppi conservatori che si oppongono all’aborto (sia statunitensi che nostrani) lo fanno, almeno nominalmente, in forza di princìpi religiosi e cristiani.

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Eppure, non possiamo non scorgere il barlume di contraddizione che sta al fondo della situazione. La Roe vs Wade ha garantito il diritto all’aborto per quasi 50 anni, diventando un oggetto di studio per il mondo accademico e una pietra miliare della storia dei diritti; insomma, la Roe vs Wade era diventata, a tutti gli effetti, tradizione. L’elemento paradossale è reso ancora più evidente, nella “dualistica” politica americana, dai leader che si sono scontrati alle ultime elezioni: da un lato Joe Biden, anziano ed esperto politico dall’impostazione tradizionale e, dall’altro, l’uomo nuovo, il roboante imprenditore di New York, personaggio televisivo e star mediatica, Donald Trump.

Insomma, probabilmente religione e tradizione possono essere separate e contrapposte ancora oggi, spetta alle forze politiche in campo e ai cittadini che vivono il libero dibattito democratico porre in atto questa scissione a livello culturale, anche attraverso la rilettura dell’opera di David Hume.

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C. Spitzweg, Il topo da biblioteca, olio su tela, 1850

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Bibliografia:

1 J. M. Keynes, The End of Laissez-Faire, 1926, p. 6: «I do not know which makes a man more conservative to know nothing but the present, or nothing but the past» [traduzione mia]. Testo consultabile qui.

2 D. Hume, Il commercio, in Libertà e moderazione. Scritti politici, tr. it. S. Pupo, Rubettino, Soveria-Mannelli 2016, p. 123.

3 Ibidem.

4 Id., Trattato sulla natura umana, tr. it. P. Guglilemoni, Bompiani, Milano 2002, p. 1085.

5. Ivi., p. 961.

6. J. M. Keynes, op. cit., p. 6: «A study of the history of opinion is a necessary preliminary to the emancipation of the mind» [traduzione mia].

7 D. Hume, Lo studio della storia, in Opere, a cura di E. Lecaldano, Laterza, Bari 1971, Vol. 2, pp. 959-963.

8 Id., La regola del gusto, in La regola del gusto e altri saggi, tr. it. G. Preti, Abscondita, Milano 2017, pp. 31-32.

9. Id., Trattato sulla natura umana, cit., p. 543.

10 Id., Storia naturale della religione, tr. it. U Forti, a cura di P. Casini, Laterza, Roma-Bari 1994.

11 Id., La libertà civile, in Libertà e moderazione. Scritti politici, cit., p. 77.

12 Id., Storia naturale della religione, cit., p. 95.

Giovanni Soda

Classe 2000, ho rinunciato a studiare finanza per fare filosofia, sogno di scrivere per vivere e sono fermamente convinto che concetti, idee e pensieri di ieri riescano a spiegare il mondo di oggi meglio di quanto facciamo noi.

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