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Che cos’è l’Illuminismo? Foucault e la modernità

Che cosa poteva ancora dare l'Illuminismo al tramonto del secolo breve, quando la modernità sembrava ormai esaurirsi?

7 minuti di lettura

Poco prima di morire, nel 1984 Michel Foucault s’interrogò sulla risposta di Immanuel Kant alla domanda «Was ist Aufklärung?», «Che cos’è l’Illuminismo?» pubblicata nel 1784 sulla rivista Berlinische Monatsschrift. Tale interrogazione non poteva non scuotere il filosofo francese, che nello stesso anno, in un autocommento della propria opera pubblicata nel Dictionnaire des philosophes sotto lo pseudonimo di Maurice Florence, rivendicò la provenienza della propria Storia critica del pensiero dalla tradizione critica inaugurata da Kant[1].

Essere illuministi è innanzitutto essere critici. Ma in quale modo? Che cosa poteva ancora dare l’Illuminismo al tramonto del secolo breve, quando la modernità sembrava ormai esaurirsi? Che cos’è oggi l’Illuminismo? Può forse essere riattivato grazie all’intermediazione di Michel Foucault e del suo obiettivo di costituire un’«ontologia critica di noi stessi»[2]?

Che cos’è l’Illuminismo?

L’Illuminismo non è semplicemente un’epoca storica che si può racchiudere fra le parentesi degli eventi; Foucault sottolinea come Kant, con la sua famosa definizione dell’Aufklärung come «uscita dell’uomo da uno stato di minorità quale è da imputare a lui stesso»[3], costituisce l’Illuminismo in rapporto a un’attualità «definita dal modificarsi del rapporto preesistente tra la volontà, l’autorità e l’uso della ragione»[4], ovvero come un processo storico e un dovere imperfetto, un compito mosso dal motto Sapere aude, «abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza»[5]. L’Aufklärung è un ethos che prescrive un uso autonomo della ragione in rapporto all’autorità e avente come scopo la costituzione di un nuovo sé. Questo nuovo rapporto fra volontà, autorità e uso della ragione implica una connessione con l’attualità, col presente; in particolare implica un mutato rapporto col potere politico, testimoniato dal passaggio dalla prescrizione “non ragionate e ubbidite” alla prescrizione “ragionate quanto volete su tutto ciò che volete ma ubbidite”.

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Già in questa singolare formulazione dell’ordine politico si scorge il problema che Foucault può individuare nell’uso critico della ragione secondo Kant: esso non investe l’omofonia fra vita e pensiero, ma si limita all’uso della ragione, al räzionieren che Kant definisce pubblico, ovvero «l’uso che uno ne fa come studioso, davanti all’intero pubblico dei lettori»[6] contrapposto all’uso privato, ossia compiuto in quanto funzionario di un certo ufficio, come mezzo di una macchina sociale.

Il ragionare è sempre lecito, ma soltanto nella sua funzione apparentemente non-perturbativa, nell’uso sommesso della ricerca scientifica e accademica, quando ci si rivolge a un pubblico di pari. La problematica è chiara: il ragionare ha una funzione essenzialmente critica ma il limite del suo uso è la stabilità dell’ordinamento politico; il ragionare non può giungere fino all’uso privato, pervertire con l’omofonia l’obbedienza. Essere illuministi è essere critici, ma tale critica si rivela differente per Kant e Foucault: laddove per il primo essa si muove fino a dove è legittimo estendersi, ossia nella tranquillità di un ragionare per ragionare fra studiosi, per l’altro essa coinvolge lo strumento stesso della critica, «si tratta di rischiare la distruzione del soggetto della conoscenza nella volontà, indefinitamente dispiegata, di sapere»[7].

Illuminismo e modernità

Abbiamo detto che l’Illuminismo è un ethos, una forma di vita costituitasi da un nuovo rapporto con sé in relazione al presente; l’Aufklärung è un «atteggiamento», «un modo di relazione con l’attualità»[8] peculiarmente moderno, che investe una nuova soggettività. Possiamo dire che l’Illuminismo è l’atteggiamento tipico della modernità e che la modernità come epoca non è altro che il rischiaramento messo in atto dai secoli che hanno fatto proprio il motto dell’Illuminismo. Vi è una connessione fondamentale fra l’Illuminismo e il presente, donde proviene l’emergenza del concetto stesso di modernità, della consapevolezza di essere non soltanto situati in un’epoca che ha continuità e relazione con una totalità o con un compimento futuro, bensì di essere situati in una differenza storica[9].

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Per definire la modernità Foucault utilizza Charles Baudelaire, autore che più di tutti ha incarnato e indagato le contraddizioni del moderno. In Il pittore della vita moderna, scritto dedicato all’opera dell’incisore Constantin Guys, Baudelaire definisce la modernità come «il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile»[10]; singolarmente, la definizione della modernità è la medesima delle definizioni di moda e di bellezza, senonché la modernità non si risolve nella coscienza della transitorietà né segue semplicemente il corso del tempo, bensì tenta un’eroicizzazione ironica del presente: «la modernità non è un fatto di sensibilità al presente che fugge; è una volontà di “eroicizzare” il presente»[11]. Tale eroicizzazione si raggiunge con la trasfigurazione nell’incorruttibile bellezza dell’elemento corruttibile della bellezza, distillando «l’elemento eterno, invariabile, la cui quantità è oltremodo difficile da determinare» dall’«elemento relativo, occasionale, che sarà, se si preferisce, volta a volta contemporaneamente, l’epoca, la moda, la morale, la passione»[12].

Costantin Guys è l’uomo delle folle, il fanciullo, a suo modo un dandy: benché artista minore, egli è autenticamene il pittore della vita moderna poiché è capace «di distillare dalla moda ciò che essa può contenere di poetico nella trama del quotidiano, di estrarre l’eterno dall’effimero»[13]. In questo senso, Baudelaire individua un rapporto peculiarmente moderno fra il transeunte, il particolare, il contingente, il fluttuante e l’universalità stabile dell’eterno, simile alla coincidenza propria dell’Illuminismo fra l’universalità della ragione e il suo uso condizionato dall’attualità. Essere moderni, siccome essere illuministi, è incarnare questo mutato rapporto fra universalità e presente, aggirarsi fra le condizioni contingenti della storicità con la volontà di costituire un senso sovratermporale.

Questo rapporto col presente inaugurato dalla modernità implica necessariamente un inedito rapporto con sé stessi: il dandy è il tipo umano moderno par excellance, caratterizzato da un delicato ascetismo, dotato di «una sottile intelligenza di tutto il meccanismo morale del nostro mondo» e, per altro verso, votato all’insensibilità[14]; il dandy si fa portatore di un’estetica del sé, di una trasformazione permanente del proprio corpo e del proprio spirito, di una soggettivazione resa possibile dall’Illuminismo e dalla modernità. L’uomo moderno «non è colui che parte alla scoperta di se stesso, dei suoi segreti e della sua verità nascosta; è colui che cerca d’inventare se stesso»[15], che assume come compito l’elaborazione di sé, l’utilizzo della ragione per condurre una critica serrata di sé e del mondo.

L’ontologia critica di noi stessi

Se secondo Foucault l’Aufklärung si radica nell’atteggiamento tipicamente moderno di costituirsi come soggetti autonomi in relazione a un’attualità, è evidente che la critica così com’è concepita da Kant rimane insufficiente in virtù di quel freno che vieta un uso privato della ragione. Per costituire un’ontologia critica di noi stessi è necessario sorpassare il criticismo kantiano per giungere a eredi più crudeli e radicali: è nella genealogia di Friedrich Nietzsche che Foucault trova la sua provenienza. La differenza dei principi fra critica kantiana e nietzschiana è brillantemente enunciata da Gilles Deleuze in Nietzsche e la filosofia:

[Kant] ha inteso la critica come una forza che doveva prendere di mira tutte le pretese di conoscenza e verità – ma non la conoscenza e la verità stessa – una forza che doveva prender di mira le pretese della moralità – ma non la moralità stessa. Di modo che la critica si trasforma in politica di compromesso: prima di entrare in guerra si dividono le sfere di influenza[16].

Kant ha istituito un galateo delle forze, tracciando i limiti necessari entro cui legittimamente può operare una facoltà. La critica kantiana è fallace a causa del diritto che ne costituisce la forma: per Foucault, come per Nietzsche, una forza non opera perché cooptata entro delle limitazioni, ma contro quelle stesse limitazioni. Se genealogizziamo la critica kantiana troviamo la sua provenienza nella disputa platonica, in quella disputa circa la legittimità dei pretendenti che involve un diritto tacito e superiore del modello per risolvere la diatriba; la provenienza della critica foucaultiana, invece, è la genealogia stessa, la critica nietzschiana alla conoscenza, alla morale, al giudizio, che sacrifica per spirito di verità lo stesso spirito di verità.

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L’ontologia critica di noi stessi riprende l’atteggiamento limite dell’Illuminismo, il sostare della critica sulle frontiere, rovesciandolo: laddove Kant intendeva la critica come analisi dei limiti necessari, Foucault intende «una critica pratica nella forma del superamento possibile»[17]. Ovvero, una critica che non definisca il trascendentale, ossia le condizioni di possibilità, ma che indaghi le condizioni di realtà, gli a priori storici, gli eventi microfisici che ci hanno soggettivato in maniera determinata. In questo senso, «tale critica non è trascendentale e non si propone di rendere possibile una metafisica: è genealogica nella sua finalità e archeologica nel suo metodo»[18], si muove nello spazio grigio, meticoloso, pazientemente documentario delle formazioni storiche del sapere e delle strategie di potere.

Così, il limite necessario dell’uso privato, la sua insostenibilità politica, si fa superamento possibile: l’ontologia critica di noi stessi è esattamente una sperimentazione circoscritta, locale dei limiti che possiamo superare per essere liberi; è la sperimentazione di linee di fuga con cui possiamo costituire noi stessi come soggetti autonomi. La posta in gioco di una tale ontologia critica è dunque: «come disconnettere la crescita delle capacità e l’intensificarsi delle relazioni di potere?»[19]; come sciogliere le soggettività possibili dai concatenamenti che le producono ed intrappolano? Questa è la domanda dell’Illuminismo, il compito storico che la modernità ci consegna.

Note

[1] Foucault, M., “Foucault” (1984), in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. Vol. 3, Feltrinelli, Milano, 2020, p. 248.
[2] Id., “Che cos’è l’Illuminismo?” (1984), in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. Vol. 3, cit., p. 228.
[3] Kant, I., “Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?” (1784), in Che cos’è l’illuminismo?, Editori Riuniti, Roma 2017, p. 61.
[4] Foucault, M., “Che cos’è l’Illuminismo?”, cit., p. 219.
[5] Kant, I., “Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?”, cit., p. 61.
[6] Ivi, pp. 63-64.
[7] Foucault, M., “Nietzsche, la genealogia, la storia” (1971), in Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, p. 54.
[8] Id., “Che cos’è l’Illuminismo?”, cit., p. 223.
[9] Ivi, p. 219.
[10] Baudelaire, C., “Il pittore della vita moderna” (1863), in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 2004, p. 288.
[11] Foucault, M., “Che cos’è l’Illuminismo?”, cit., p. 223.
[12] Baudelaire, C., “Il pittore della vita moderna”, cit., p. 280.
[13] Ivi, p. 288.
[14] Ivi, p. 285.
[15] Foucault, M., “Che cos’è l’Illuminismo?”, cit., p. 225.
[16] Deleuze, G., Nietzsche e la filosofia (1962), Einaudi, Torino 2002, p. 133.
[17] Foucault, M., “Che cos’è l’Illuminismo?”, cit., p. 228.
[18] Ibidem.
[19] Ivi, p. 230.

Mattia Brambilla

Sono laureato in filosofia presso l'Università degli Studi di Milano; amo il pensiero e le lettere, scrivo e mi diletto con gli scacchi.

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