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Husserl

Quando Husserl si chiese se le scienze possono renderci felici

Riflettere filosoficamente sulla scienza e sulla sua funzione storico-sociale rischia sempre di prestare il fianco a posizioni reazionarie. Cosa diceva Edmund Husserl, filosofo e matematico, a questo proposito?

10 minuti di lettura

Come si critica la scienza?

Per qualche motivo strano ed irrazionale, di quelli che solitamente infettano la doxa, ci si imbatte spesso, nel dibattito pubblico, in persone, opinionisti e supposti intellettuali che vedono annidata in giro una – totalmente supposta – avversione della filosofia nei confronti della scienza e, addirittura, una sua supposta volontà iconoclasta e reazionaria. Chiunque sia un minimo ferrato nella storia della filosofia ben sa che tali atteggiamenti rozzi e distruttivi raramente si presentano, specialmente nei confronti della ricerca scientifica che, rispetto ad altre forme culturali (come l’arte o la religione), ha oggettivamente goduto della più alta considerazione possibile da parte dell‘indagine filosofica.

Eppure, sono riscontrabili alcuni passaggi in cui questa brama reazionaria sembra emergere, è certamente il caso di quella sfortunata esclamazione di Martin Heidegger: «la scienza non pensa» (in Che cosa significa pensare?, a cura di G. Vattimo, Milano 1997, p. 9). È possibile attendersi una critica alla scienza nei testi di un pensatore maledetto, radicale e drammatico come Heidegger, una critica che abbia il sentore dell’oscurantismo e dell’amore per l’arretratezza; una critica, insomma, che non sembra avere molto a che fare con la critica come insegnata da Immanuel Kant, ovvero ricerca costruttiva dei limiti propri di ogni conoscenza, entro cui questa può dispiegarsi.

Spostiamo la nostra attenzione dalle notissime vette oscure dell’autore di Essere e tempo e volgiamola ad un autore come Edmund Husserl. L’ironia della sorte ha voluto che il maestro di Heidegger fosse un filosofo sistematico, moderato, morigerato e per lo più impolitico. Possiamo forse sperare di ritrovare qui una buona critica della scienza? Una critica che sfugga a quei fraintendimenti e malinterpretazioni in cui incappa – anche per sua colpa – Heidegger?

Viene in nostro soccorso, nell’immensa produzione del filosofo moravo, una Beilage, una appendice che Husserl appone in conclusione ai suoi cinque articoli pubblicati, fra il 1922 e il 1923, sulla rivista giapponese Kaizo e oggi raccolti nel volume intitolato L’idea di Europa (tr. it. (a cura di) C. Sinigaglia, Milano 1999). Nello specifico, la quarta appendice, nel titolo, pone una domanda che, a prima vista, sembra strana e bizzarra: «Cultura originaria e civilizzazione. Possono le scienze moderne rendere “felici”»?

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In foto: il numero della rivista giapponese Kaizo, su cui Husserl pubblicò i suoi cinque saggi nel 1923

La vita spirituale dell’umanità

Legare due elementi appartenenti a sfere così distanti come scienza e felicità richiede un massiccio sforzo teoretico. Per compiere quest’operazione è necessario, in primis, indicare quel complesso di elementi, da noi solitamente chiamato cultura in cui tutte le nostre conformazioni intellettuali si formano. Husserl introduce, così, l’idea di vita spirituale dell’umanità, con cui si indica «l’ambito universale della libera vita attiva di uomini che stanno tra loro, per mezzo della mutua comprensione, in comunità personale: la vita conforme a scopi, rivolta a scopi che lei stessa si è posta» (ivi., p. 123).

La dimensione della libera vita attiva ha a che fare con il processo tramite cui un popolo costruisce una cultura. Ciò è possibile tramite l’attivazione la messa in atto di «una spiritualità originariamente creativa» (ivi., p. 125); una forza ferina e viscerale che anima la costruzione degli artifici culturali di un popolo, saldato internamente da un profondo senso di mediazione delle relazioni comunitarie e agitata da un profondo senso di entusiasmo per tutte le opere scaturite da una tale disposizione d’animo.

Leggi anche:
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Questo genere di analisi si riscontra, in forme simili, assai spesso nell’epoca di Husserl che, proprio in forza di questo sentimento diffuso, si ritiene l’epoca della crisi della coscienza europea. È questo agonizzante contesto culturale ad offrire la celebre distinzione fra cultura (Kultur) e civilizzazione (Zivilisation). La prima consiste, propriamente, nel prodotto plasmato da un’energica vitalità; come dicevamo in precedenza, la creazione di una vita conforme a scopi.

Di contro, la civilizzazione è la «la vita secondaria della cultura» (ivi., p. 123). Vale a dire la cultura che ha perso il suo radicamento vitale, la sua forza originaria e che trascina – stanca e dogmatica – le sue concezioni reiterate per pure e semplice tradizione. Nello specifico, la civilizzazione è la cultura nel momento in cui perde «il senso intimo della propria formazione» (ibidem).

Insomma, è una cultura che dimentica tanto la sua radice quanto il suo senso storico decade al rango di civilizzazione. Potremmo dire, richiamando la celebre idea di Hegel per cui la filosofia comprende le cose solo una volta che esse sono terminate, che la civilizzazione è una conformazione in cui tutti i giochi sono già stati fatti ma che, al contempo, non vuole aver niente a che fare con quella pittura grigio su grigio che la filosofia pennella quando il verde della vita è passato.

Rinunciando al suo movimento storico, la civilizzazione perde totalmente quel senso chiaro che la rende, dice Husserl con un concetto che poi (questa volta innegabilmente) sarà caro ad Heidegger, inautentica.

È inautentico ciò di cui si perde la «visione dell’intero» (ivi., p. 127) ossia «l’universalità della produzione esteriore dell’ordine e della fissazione» (ibidem). In altre parole, non sono inautentiche quelle branche del sapere di cui si perde, banalmente, la storia ma quelle della cui storia non si riesce più a comprendere il senso.

La scienza è inautentica?

A queso punto, sembrano apparecchiati tutti gli elementi necessari per portare Husserl a formulare la medesima massima di Heidegger e concludere, sic et simpliciter, che la scienza è inautentica.

Eppure, il padre della fenomenologia, mette subito in fuga questo dubbio: «nessuno negherà che la scienza moderna sia una dimostrazione di cultura autentica» (ivi., p. 126). Mettendo subito in chiaro, nel periodo successivo, che questa affermazione vale «nell’unilateralità che il termine “scienza” già indica» (ibidem).

Eppure, dice Husserl, nonostante ciò un vivo sentimento di stanchezza verso la scienza, pur al netto di tutti i suoi risultati, può essere percepito nella società. Secondo il filosofo, causa di questo spaesamento è l’iperspecializzazione, poiché ogni scienziato tende – sempre di più – ad occuparsi unicamente nel suo minuscolo recinto epistemico, ecco che «l’uomo di scienza si è tramutato in un lavoratore dedito unicamente ad un grande ingranaggio» (ivi., p. 127) che non può essere apprezzato nella sua totalità (come si affermava prima, sottolineando il valore della visione dell’intero) e di cui, pertanto, non può essere colta la teleologia, il senso cui tutta la storia tende.

Senso delle cose e felicità

Avviandosi alla conclusione dell’Appendice, Husserl collega alla teleologia trattata sopra non solo il destino dell’umanità (di cui, ovviamente, la storia tratta) ma anche, e soprattutto, una promessa di felicità. Questa, dovrebbe essere legata alla conoscenza, nel suo senso più slanciato ed erotico, nel grande sentimento di appartenenza ad un orizzonte comune ed inesorabile.

Questa è la condizione che risponde alla domanda d’apertura del saggio: «quando la cultura scientifica è originariamente sgorgante, autentica nella radice e nel fine, autentica nel metodo e nella produzione?».

Il filosofo conclude il testo ricordandoci come il mero aumento di potenza, il puro affinamento tecnico e l’arido arricchimento della nostra conoscenza, non possono, di per sé, risolvere la questione dell’immenso complesso della cultura. Sarà la filosofia a dover farsi carico di questa, apparentemente banale, onerosa questione; questione che, è bene tenere a mente, non interessa unicamente qualche individuo qui e ora, ma l’umanità tutta in ogni momento:

Voi direte che la felicità è una questione personale e una grazia. Può essere. Certo è che essa, se la ricevo, è grazia divina. Ma non è necessario che mi chieda come divengo felice? Come posso diventarlo, e come mi libero della mia infelicità?

ivi., p. 128

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Giovanni Soda

Classe 2000, ho rinunciato a studiare finanza per fare filosofia, sogno di scrivere per vivere e sono fermamente convinto che concetti, idee e pensieri di ieri riescano a spiegare il mondo di oggi meglio di quanto facciamo noi.

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