fbpx

Inflazione del titolo di studio: quanto conta davvero la formazione?

8 minuti di lettura

Chi oggi ha un’età compresa tre i venticinque e i trentacinque anni sa perfettamente di cosa stiamo parlando: l’inflazione del titolo di studio è diventato un must del primo decennio del nuovo millennio e si prepara ad esserlo, forse, anche per il prossimo, lasciandosi alle spalle file infinite di lavoratori precari.

Che cosa vuol dire inflazione del titolo di studio? In parole semplici, vuol dire che il titolo di studio, quello che una volta si chiamava il “pezzo di carta”, ha perso quasi del tutto il suo valore, il suo prestigio.  

Quanto conta essere altamente specializzati?

Noi millennial, giovani adulti ma non troppo, che abbiamo studiato e creduto nella formazione post-scolastica, vogliamo essere degli irriducibili ottimisti e non ci accontentiamo mica di ciò che abbiamo visto finora. Vogliamo di più. Vogliamo che il livello di difficoltà si alzi fino al punto in cui cadremo per forza sul fondo e finalmente dovremo trovare una soluzione alternativa.

Leggi anche:
Fare cultura in streaming: cosa cambia e cosa ci resterà

Sì, perché i giovani adulti di oggi si sono fatti le ossa nel dover cercare qualcosa di alternativo e di sempre più specializzato e a furia di cercare, vedere, provare, tutto ciò che era diverso è diventato normale.

La formazione negli ultimi vent’anni

Bisogna andare per ordine e cercare di capire, con i dati alla mano, che cosa è successo nel mondo della formazione negli ultimi vent’anni, fino ad arrivare ad oggi. I giovani adulti si ritrovano a dover certificare ogni competenza e non con il lavoro sul campo e con l’esperienza, ma con un indice infinito di titoli di studio acquisiti nel pubblico e nel privato.

Secondo i dati ANVUR, la legge 341/1990 prevedeva tra i titoli formativi post-laurea solo i dottorati di ricerca e le scuole di specializzazione. Questa legge fu ampliata, nel 1999 con il d.m. 509/1999 che invece modificava l’assetto formativo dei corsi di laurea in lauree triennali, lauree magistrali o specialistiche che potevano essere sostituite da un master di I livello, a seguito del quale poteva esserci un master di II livello o un dottorato di ricerca o una scuola di specializzazione.

Tutto ciò ha causato una diversificazione potente dei titolo di studio, specializzando all’inverosimile le competenze di un soggetto in formazione che studia con il fine di vedersi garantito un posto di lavoro.

Quanto conta la formazione nel mondo del lavoro?

Un occhio attento, anche non direttamente coinvolto, nota subito che la formazione universitaria e post-universitaria, a seguito della scissione dei corsi di laurea a ciclo unico in corsi triennali e magistrali e il conseguente aumento dei corsi di master di I e II livello sia statali che privati, rischia di dare come risultato una ossessiva specializzazione dei soggetti e un impoverimento della creatività propria dell’essere umano e della sua naturale capacità di adattamento alle situazioni di disagio e di crisi all’interno di un gruppo e di un’azienda.

Leggi anche:
Big data e Coronavirus: verso una nuova cittadinanza?

I master e le assurde specializzazioni di ogni tipo conferiscono le cosiddette hard skills, ma le soft skills si fanno sul campo e non si imparano dalle slide e dalle lezioni in aula.

Ciò nonostante il referto di Almalaurea del 2018 sosteneva che solo l’8,3% dei laureati in un corso triennale decideva di frequentare un master, mentre il restante 62% decideva di iscriversi ad un corso di laurea magistrale. Però, il tasso di occupazione per i soggetti con un master tra le mani era superiore al 50% rispetto a quelli con una laurea specialistica, che invece erano solo al 26%. Dati alla mano, ci dimostrano che un individuo con un master ha più possibilità di entrare nel mondo del lavoro rispetto a chi ha una laurea magistrale.

Inflazione del titolo di studio e overeducation

A seguito di studi e letture sull’argomento, la domanda che si pone è: ma davvero conta così tanto essere altamente specializzati? Davvero conta così tanto frequentare corsi a pagamento per imparare nel minimo dettaglio quelle stesse competenze che si dovrebbero acquisire semplicemente lavorando e “sporcandosi le mani” (e le menti) accanto a chi ha, magari, più esperienza? Davvero si vuole affidare continuamente a terzi la possibilità di formare una mente senza lasciare quella stessa mente libera di seguire il proprio istinto e il proprio talento, un poco secondo il modello di Steve Jobs?

Inflazione del titolo di studio

Porsi una domanda o delle domande, in un periodo storico così delicato, è lecito. Alcuni studi americani, come ad esempio quello di George Leef, The overselling of highter education, oppure il report di Joseph B. Fuller e di Manjari Raman, Dimissed by degrees. How degree inflation is undermining U.S. competitiveness and hurting America’s middle class, dimostrano come l’inflazione del titolo minimo di studio per risultare idoneo al superamento di un colloquio di lavoro ha portato al fenomeno detto dell’overeducation, ovvero di una sovra e non necessaria formazione universitaria e post-universitaria.

Inflazione del titolo di studio: possibili scenari

Soluzioni? Si potrebbe auspicare di ripuntare sul talento personale di un soggetto, quel talento che nessuno ti insegna, ma che ti viene dato in natura e su cui bisognerebbe investire. In questo modo anziché l’omologazione della formazione e quella che gli americani chiamano overeducation, si avrebbe una diversificazione delle competenze, un aumento della creatività e di soluzioni laterali e alternative proposte per la crescita dell’economia e il progresso delle comunità.

Non sappiamo ancora con certezza ciò che accadrà dopo la crisi sanitaria che ha colpito il mondo dall’inzio del 2020, ma la storia ci insegna che le crisi portano sempre qualcosa di nuovo. Probabilmente dovremo modellarci su un nuovo assetto mondiale e puntare sul talento e sulla cura dello stesso, puntare sulla creatività e sulla capacità di adattamento per poter sopravvivere e mettere in atto nuovi modelli lavorativi, educativi, vitali.

 


Segui Frammenti Rivista anche su Facebook, Instagram e Spotify, e iscriviti alla nostra Newsletter

Sì, lo sappiamo. Te lo chiedono già tutti. Però è vero: anche se tu lo leggi gratis, fare un giornale online ha dei costi. Frammenti Rivista è edita da una piccola associazione culturale no profit, Il fascino degli intellettuali. Non abbiamo grandi editori alle spalle. Non abbiamo pubblicità. Per questo te lo chiediamo: se ti piace quello che facciamo, puoi iscriverti al FR Club o sostenerci con una donazione. Libera, a tua scelta. Anche solo 1 euro per noi è molto importante, per poter continuare a essere indipendenti, con la sola forza dei nostri lettori alle spalle.

Anto D'Eri Viesti

A proud millennial. Dopo il dottorato in semiotica e gender studies decide di dedicarsi solo alle sue passioni, la comunicazione e la scrittura.
Copywriter e social media manager.
La verità sta negli interstizi, sui margini e nei lati oscuri.
Tanti fiori, cioccolato e caffè.