Pubblicato su Screen nel 1975, Visual Pleasure and Narrative Cinema di Laura Mulvey ha rappresentato un testo significativo nell’analisi del linguaggio cinematografico. Il suo approccio psicoanalitico per una lettura femminista del linguaggio cinematografico ha rappresentato una vera rivoluzione nel modo di parlare e di approcciare la materia filmica e la sua analisi. L’ingresso nel gergo comune di termini e concetti come “male gaze“ – anche se utilizzato spesso in maniera impropria o semplicistica – è un ulteriore segnale dell’impatto che questo testo ha avuto nel corso degli anni.
A cinquant’anni dalla sua pubblicazione, è ancora utile rileggere questo saggio capitale non solo per comprendere le dinamiche di genere insite nell’immagine cinematografica. Esso rappresenta, infatti, anche un ottimo strumento per capire come il cinema sia cambiato in termini di linguaggio e di rappresentazione e che impatto Visual Pleasure abbia avuto nella storia del cinema.
Storia, contesto e limiti di Visual Pleasure and Narrative Cinema
La Feminist Film Theory: alle origini di Visual Pleasure
Originariamente scritto nel 1973 dalla studiosa, critica e cineasta radicale Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema si iscrive all’interno della corrente di studi nota come Feminist Film Theory. Come suggerisce la Treccani, essa rappresenta «la creazione di un nuovo spazio di indagine e costituisce non soltanto il risultato della crescita numerica delle donne attive nel campo del cinema. Essa è infatti una vera e propria riflessione sul linguaggio, oltre che un metodo di lavoro, di codifica e di decodifica, che si interroga sostanzialmente sul rapporto tra rappresentazione e differenza sessuale.» All’interno della Feminist Film Theory, sviluppatasi primariamente tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, si trovano due correnti principali.
La prima, di carattere statunitense, si è focalizzata sull’analisi sociologica dell’interpretazione dei ruoli femminili nel complesso delle narrazioni cinematografiche. Il testo cardine di questa corrente della Feminist Film Theory è From Reverence to Rape: The Treatment of Women in the Movies di Molly Haskell.
La seconda corrente, quella di matrice anglosassone, analizza il testo filmico avvalendosi di strumenti di altre discipline, come la psicanalisi e la semiotica. Questo approccio permette alle teoriche di indagare il femminile all’interno di una specifica produzione. Il saggio di Laura Mulvey appartiene a quest’ultimo filone, divenuto talmente tanto influente negli anni da diventare poi l’approccio di riferimento per gli studi femministi nel cinema.
Psicanalisi e Freud in Visual Pleasure and Narrative Cinema
Alla base del saggio di Laura Mulvey vi sono i concetti freudiani di “scopofilia” e “voyeurismo” che illustrano le modalità di rappresentazione del femminile nel cinema. Secondo Visual Pleasure, il cinema narrativo1 ha saputo costruirsi attorno al “male gaze“, lo sguardo maschile sul mondo e sulla donna. Tale sguardo maschile si presenta come triplice all’interno del film: esso si presenta, infatti, come lo sguardo dei personaggi che popolano la narrazione, lo sguardo della macchina da presa sulle vicende e lo sguardo degli spettatori rivolti verso lo schermo. All’interno di questo regime di sguardi, il corpo femminile viene dunque visto come oggetto passivo. Questa passività si oppone invece al regime di sguardi che viene attivamente instaurato dalla macchina cinema.
In tale dimensione di passività, lo sguardo maschile opera due meccanismi verso il corpo femminile rappresentato (il quale, secondo Laura Mulvey, spesso non ha una funzione attiva all’interno della narrazione. Esso rappresenterebbe una forma di pausa dalla narrazione per offrire un’altra dimensione di spettacolo al pubblico maschile, vale a dire un spettacolo eroticamente caricato). Da un lato, il male gaze attiva un processo di oggettificazione del corpo femminile (scopofilia feticistico). Dall’altro, lo stesso può attuare un processo di controllo sull’immagine della donna, applicando un meccanismo di voyeurismo. Entrambi i meccanismi vengono impiegati dallo sguardo maschile per ignorare o affrontare l’idea della castrazione che la figura della donna, in quanto non portatrice di pene, intrinsecamente rappresenta per l’uomo.
I meccanismi applicati e qui brevemente illustrati (mutuati ancora una volta dalla teoria freudiana) vedono dunque la donna come un soggetto psicanaliticamente problematico, che va sottomessa e ignorata per la sopravvivenza dell’uomo.
Criticità e limiti del male gaze
Questa lettura psicanalitica al cinema dunque dimostra quanto meccanismi di natura patriarcale siano insiti nel linguaggio cinematografico. Nonostante il suo indubbio approccio innovativo al cinema, esso ha incontrato negli anni diverse critiche da parte di studiosi. In primis, si pongono questioni legate al ruolo delle donne nello sguardo maschile – le spettatrici donne come si rapportano a tale male gaze nella fruizione dei film? Esso viene interiorizzato o vi è un approccio di resistenza da parte delle spettatrici? Laura Mulvey non indaga tali aspetti, almeno non in questo saggio.
In secundis, la cosiddetta Queer Theory muove una critica alla teoria di Mulvey per il suo approccio profondamente eteronormato. Il male gaze, infatti, si presuppone sia uno sgaurdo eterosessuale, oltre che maschile, sul mondo. Questo pone quindi una serie di problemi rispetto a possibili “sguardi omosessuali”: come si rapportano a questa teoria lo sguardo maschile attratto da un altro uomo? O quello di una donna attratta da un’altra donna? Come si pongono, poi, questi sguardi nel caso di approcci non cisgender, di corpi non incasellati nel binarismo di genere?
In ultima analisi, poi, vi è un generale sentimento di superamento delle teorie freudiane. Queste ultime, infatti, non sono più in grado, secondo molti psicologi, di spiegare la complessità della psiche dell’uomo moderno e contemporaneo. Questa rimessa in discussione delle teorie di Sigmund Freud fa vacillare i presupposti su cui Visual Pleasure and Narrative Cinema si fonda.
Ma questo, al tempo stesso, non vuol dire che il testo sia stato superato o che non debba più essere letto. Al contrario, proprio queste criticità ci fanno porre in un atteggiamento critico nei confronti del testo di Laura Mulvey. Questo ci permette, insomma, di facilitare il dialogo con il saggio stesso nel nostro presente, profondamente cambiato rispetto a cinquant’anni fa.
Registe donne, female gaze, cultura pop: gli effetti di Visual Pleasure negli ultimi cinquant’anni
Film di donne, più film femministi
Come si è già accennato, l’impatto di Visual Pleasure and Narrative Cinema è stato fondamentale non solo per la teoria del film, ma anche per molti altri rami del sapere. Il suo modo di intercettare la pervasività delle strutture patriarcali anche nel mondo mediatico ha influito sul modo di pensare e di fruire i media. È infatti inevitabile pensare quanto il contesto e il mondo della produzione cinematografica sia cambiata nel corso degli ultimi cinquant’anni.
In primo luogo, il numero di registe donne è aumentato esponenzialmente, arrivando addirittura ad aver ottenuto riconoscimenti come l’Oscar alla Miglior Regia2. Riconoscimenti e aumento delle prodotti di registe donne, capaci di portare la loro visione sul grande schermo, non sono però sintomo di superamento del male gaze. Secondo Variety, infatti, nell’ultimo anno solo il 16% dei film più di successo dell’anno scorso, infatti, sono diretti da donne:
Martha Lauzen, the study’s author and the director of the Center [for the Study of Women in Television and Film, nda], noted the accomplishments of filmmakers like Coralie Fargeat (“The Substance”) and Halina Reijn (“Babygirl”) while bemoaning the state of an industry that hasn’t made much progress when it comes to elevating female filmmakers.
Se questo discorso si attene al cinema contemporaneo, nel corso dei cinquant’anni dalla pubblicazione del testo di Laura Mulvey altre forme di cinema femminile sono nate. Esperienze cinematografiche più radicali hanno tentato di sfidare la forma narrativa e di sguardo tipicamente patriarcale. Il cinema femminista più radicale, soprattutto nel corso degli anni Settanta, ha visto contributi fondamentali come quelli di Chantal Akerman (Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles, il miglior film della storia del cinema secondo Sight & Sound3) e Agnés Varda (Cléo dalle 5 alle 7, Les Plages d’Agnés). Opere e autrici in grado di rimettere al centro l’universo e i problemi delle donne, con un linguaggio innovativo e lontano dalle classiche regole.
“Female gaze“, il cinema di Céline Sciamma e i limiti di questa definizione
Proprio in virtù di queste nuove forme espressive, che tentano un allontanamento dal male gaze, negli ultimi anni si è cominciato a parlare di “female gaze“. Film come Ritratto di una giovane in fiamme di Céline Sciamma, che attraverso la sua narrazione oltre che la sua messinscena, ridefiniscono in maniera significativa, infatti, i rapporti tra opera e artista, tematizzando il rapporto tra sguardo e corpo femminile.
Nella pellicola, ambientata nel XVIII secolo, una giovane artista (Noémie Merlant) si intrufola nella villa di una ricca signora italiana (Valeria Golino) per ritrarre sua figlia (Adèle Haenel) in vista del suo matrimonio combinato. Quest’ultima, tuttavia, è restia a farsi ritrarre, così la pittrice in un primo luogo deve fare questa operazione di nascosto. Quando però la copertura salta, la giovane donna decide infine di farsi ritrarre dall’artista, con la quale avvierà una storia d’amore intensa e struggente.
Il rapporto tra musa e artista, all’interno della pellicola, viene riletto in funzione di un rapporto d’amore lesbico, lontano dai tradizionali canoni dell’arte modernista. Se l’artista maschile guarda alla sua modella con possesso per trarne ispirazione4, lo sguardo di Noémie Merlant su Adèle Haenel è invece di amore, compassione ed empatia. Uno sguardo non sessualizzante o feticistico, che rifugge le modalità espressive ed estetiche imposte per anni dal male gaze. Lo stesso sguardo che la regista posa sulle sue attrici e sulla sua musa – Haenel, all’epoca compagna nella vita di Sciamma.
L’alternativa di rappresentazione proposta da Ritratto, tuttavia, può difficilmente essere catalogata come female gaze. Ciò perché, per quanto sia in grado di teorizzare una nuova forma di sguardo, il concetto stesso di female gaze risulta problematico e indefinibile. L’assenza di teorie o di presupposti teorici alla base di questo concetto, infatti, rende il concetto stesso di female gaze come sfuggente, inclassificabile e difficilmente definibile.
Male gaze vs. female gaze nella cultura pop e online
Il termine “male gaze” è, come si è già accennato, divenuto nel corso degli anni successivi alla pubblicazione di Visual Pleasure di uso sempre più comune. Diffusosi presto presso i circoli femministi nel secondo Novecento, esso è entrato nel gergo comune, utile a sottolineare le problematiche di rappresentazione femminile nei media.
Tale diffusione, tuttavia, ha portato nel corso degli anni ad una banalizzazione e semplificazione del concetto di male gaze, soprattutto negli ultimi anni. Sui social media e non solo, infatti, si arriva ad assistere ad un uso di questo termine semplificato non solo nella propria connotazione freudiana, ma anche legato ad un uso del termine fuori del mondo dei media. Non è difficile trovare, infatti, sui social video che propongono un trend: “dressing for the male gaze vs. for the female gaze“. L* creator in questione si presenta davanti alla camera del proprio smartphone vestito prima in un modo che in teoria appaga “lo sguardo maschile”, e dopo in un modo che appagherebbe “lo sguardo femminile”.
Tale approccio, completamente alieno alle teorie di Laura Mulvey, non implica tuttavia che le giovani generazioni siano poco attente o superficiali alle questioni di rappresentazione, anzi. Basti pensare alla discussione generata on- e offline dalle giovani generazioni rispetto a Parthenope di Paolo Sorrentino per comprendere quanto siano sensibili a tali tematiche. Addirittura, alcun* potrebbero sostenere che la sensibilità dell* giovani sia troppo spiccata. Non sono poche, infatti, le persone tra i quindici e i ventiquattro anni che lamentano la presenza di scene di sesso in film e serie TV, spesso considerate inutili e troppo ghettizzanti per la donna.
Conclusione: della necessità di dialogare con il testo
Visual Pleasure and Narrative Cinema è un saggio che, per quanto capitale, è stato scritto più di cinquant’anni fa. Tale dato non è da sottovalutare nel momento in cui si considerano i potenziali limiti che nel corso degli anni si sono individuati. Tali limiti sono, probabilmente, anche dipesi da un mondo che è radicalmente cambiato sin dalla sua stesura. Come si è visto, grandi passi avanti sono stati fatti. Ciò, tuttavia, non deve lasciar credere che la situazione sia ottimale, in merito alla rappresentazione del femminile al cinema.
Ciononostante, è proprio per questo che un testo come Visual Pleasure and Narrative Cinema è e deve rimanere al centro della conversazione teorica e critica del cinema. Esso rappresenta, infatti, il primo testo nella storia della teoria filmica che è riuscito a problematicizzare il sistema patriarcale come intrinseco nella grammatica del cinema. Esso è, inoltre, il primo saggio che fornisce attivamente degli strumenti per (ri)pensare al linguaggio cinematografico attraverso la lente del genere. Rappresenta, insomma, una base per ripensare a forme, estetiche e narrazioni alternative a quelle patriarcali.
Proprio in virtù di questa centralità e di questa importanza, dunque, risulta fondamentale continuare a dialogare con Visual Pleasure. Il confronto con i suoi limiti e le sue criticità può solo essere generativo di nuove idee, nuovi ripensamenti e nuove forme alternative. Al tempo stesso, rappresenta anche un ottimo termometro per misurare quanto la situazione sia cambiata e continuerà a cambiare. Basti già vedere quanto il cinema descritto da Mulvey sia distante da quello di adesso per comprendere quanti passi avanti abbiamo fatto.
- L’analisi di Laura Mulvay prende principalmente in esame il cinema classico hollywoodiano per sviluppare le sue teorie. All’interno di Visual Pleasure and Narrative Cinema vengono, infatti, riportati come esempi di scopofilia e voyeurismo in quanto strumenti del piacere visivo e dello “sguardo maschile” le opere di Josef von Sternberg (Marocco, USA, 1930 ; Disonorata, USA, 1931) e di Alfred Hitchcock (La finestra sul cortile, USA, 1954; La donna che visse due volte, USA, 1958; Marnie, USA, 1964). ↩︎
- Al momento della stesura di questo articolo sono tre: Kathryn Bigelow nel 2010 per The Hurt Locker, Chole Zhao nel 2021 per Nomadland e Jane Campion nel 2022 per Il Potere del Cane. ↩︎
- La stessa Laura Mulvey ha commentato questa scelta in un suo articolo per il British Film Institute, si può leggere il suo contributo qui.
↩︎ - Per approfondire questo tema, si consiglia la lettura di Studio e galleria. Il rapporto tra il luogo in cui l’arte si rea e lo spazio in cui viene esposta, in Inside the white cube. L’ideologia dello spazio espositivo di Brian O’Doherty, Johan & Levi editore. ↩︎

Questo articolo fa parte della newsletter n. 47 – febbraio 2025 di Frammenti Rivista, riservata agli abbonati al FR Club. Leggi gli altri articoli di questo numero:
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