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Lilli Carati, ragazza fragile

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È una storia di luci e ombre quella di Lilli Carati. Un chiaroscuro endemico, tanto umano da finire in pezzi. Bella di un fascino indefinibile – esaltante, deliquescente, quasi dannunziano nell’espressione del suo essere – Ileana cuce i fili di una trama già smagliata, disfatta dallo showbiz vorace e tossico. «Si fa fatica a non chiamarla Lilli»[1], eppure è dal nome che parte il processo di scomposizione, costretto sui binari della malizia interpretativa, tanto efficace quanto crudele nel suo obiettivo a breve termine.

Ileana Caravati, nata a Varese nel ’56, diviene Lilli Carati per suggestione commerciale, rinuncia all’identità e ai sogni in nome di un successo sfrontato, confezionato – finanche – a uso e consumo di uno sguardo ‘maschio’, solleticato dall’accoppiamento tra fanciullezza e ‘oscenità’, tra il soprannome di bambina e un cognome imposto, misurato sulla «perfezione di un corpo quotato a peso d’oro»[2].

L’indicibile fragilità di Lilli Carati

Vittima più che artefice del suo destino, Carati deve a Miss Italia l’avvio di un percorso sghembo, improntato quasi per beffa a un eterno secondo posto, conquistato al concorso e poi subito in vita, quando da Avere vent’anni (Fernando di Leo, 1978) Gloria Guida otterrà la fama e lei un tracollo verso gli inferi. Sospesa su un vuoto esso stesso vacuo, l’attrice permea l’immaginario vestendo panni già predisposti, macchiettistici e sbarazzini secondo il filone commedia sexy. Né Fenech né Cassini, Lilli galleggia in un mare putrido, ‘sorretta’ da Franco Cristaldi che le impone un contratto capestro – o soldi ‘veri’ o niente lavoro – , pietra tombale sull’Otello a teatro.

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Lilli Carati: icona suo malgrado

Magari il cinema le andava stretto, al pari di quel corpo evocante sesso, fissato nel titolo di Festa Campanile (Il corpo della ragassa, 1979) con la doppia ‘s’ parlante – un sibilo impudico e indiscreto, come i pettegolezzi cuciteli addosso. Da Corbucci ai poliziotteschi, Lilli scivola nel cliché, paga una scelta infelice che le sbrana l’io, mentre il malessere fa a pugni col cinismo del ‘suo’ mondo:

Non mi piaceva come mi etichettavano: la bellona, la bomba sexy. Non provavo soddisfazione per un lavoro che non avevo scelto ma dal quale, come imparai a mie spese, ero stata scelta[3].

Sul baratro

Il disagio interiore sfocia in esaurimento nervoso, gli psicofarmaci divengono un palliativo, i film interrotti uno stigma del vinto. Così la droga, un tunnel senza fine di coca ed eroina. C’è un documentario (Lilli, una vita da eroina, Rony Daopoulos, 1994), intimo e struggente, in cui Carati ri-vive la discesa e il successivo recupero.

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È la stessa cifra dell’intervista con Spartà, in cui a domanda sul dramma di Moana l’attrice risponde evocando uno specchio:

Non l’ho mai conosciuta, ma da quanto ho letto mi sono convinta che anche lei, come me, fosse prigioniera di un ruolo intimamente rifiutato. Lo so: nessuno ti obbliga a fare film hardcore. Se non ti va, dici no e te ne vai. Ma prendiamo il mio caso: avevo bisogno di soldi, tanti soldi, nella fase acuta della mia tossicodipendenza, i produttori di film normali non mi chiamavano più perché ero inaffidabile, l’unico sbocco erano le luci rosse. Ecco, chi pensa che il porno è bello, che è tutto oro ciò che luccica […] rifletta: spesso le quinte nascondono grandi tragedie.

Smarrimento e speranza

La sua vita, segnata dal dramma della ribalta, fatta a pezzi come i fotogrammi delle pellicole hard – montati e assemblati al pari di un puzzle, come si potesse giocare con l’esistenza delle persone – conosce una tregua nella comunità di Saman. Non è che una parentesi, prima che Rostagno finisca assassinato e lei di nuovo sui giornali. È morta a 58 anni, dopo aver aggredito la malattia con le riprese dell’ultimo film, La fiaba di Dorian (Luigi Pastore, 2014), thriller-horror dalle speranze catartiche.

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Nell’ultima intervista a Vanity Fair raccontava il tumore e le rinunce compiute, un atto di generosità verso chiunque l’amasse: (MC: «Ha mai desiderato sposarsi?» LC: «No, avevo una vita troppo complicata per pensare di imporla agli altri»). E poi un messaggio, ad oggi tanto commovente: «Voglio dire a chiunque legga: non bisogna mollare mai. E se ve lo raccomando io, che le ho provate tutte, potete crederci»[4].

Note

[1] G. Spartà, Lilli Carati. In fuga dal porno, in Se lo dice lei. A ruota libera nell’Italia delle due repubbliche, Gavirate, Nicolini Editore, 1995, p. 171.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 173.
[4]M. Cappa, Lilli Carati: «Non mollate mai», in “Vanity Fair”, 22 ottobre 2014.

 


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Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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