Sparatorie in uffici, scuole o altri luoghi pubblici. Negli USA non passa mese senza che i media riportino almeno un caso di mass shooting, ossia una strage con armi da fuoco, né settimana senza che si parli di almeno un paio di casi di violenza legata all’utilizzo di armi da fuoco con minimo un morto. Un fenomeno su cui sono stati scritti saggi, girati documentari, o dai cui singoli eventi sono stati tratti film o serie tv tanto che ormai questi episodi drammatici sembrano parte di una vera e propria cultura dark americana.
Alla base dell’immensa diffusione del fenomeno sono quasi tutti concordi nel ritenere che vi sia l’estrema facilità di acquisto e possesso da parte dei civili di armi da fuoco e nessuna o poche restrizioni sulla possibilità di portarle con sé. Un dibattito che infiamma la politica americana da quasi un cinquantennio e che, con la fine della presidenza di Donald Trump, sembrava finalmente destinato a produrre un cambiamento concreto. Ancora oggi, però, questo cambiamento tarda ad arrivare.
È forse vero, come dice qualcuno, che la prospettiva europea sul problema non tiene conto anche degli aspetti culturali ormai interiorizzati nella società americana. Ma è anche un fatto consolidato che i numeri parlano chiaro e che la fantomatica terra delle opportunità ha un problema di paradossi che, in un mondo globalizzato, non può nascondere sotto il tappeto dell’abusata e ormai sbiadita parola libertà.
I numeri
Nel 2022 i morti di gun violence, ossia di violenza legata alle armi da fuoco, sono stati 44.343. Se si escludono i casi di suicidio, le morti per omicidio sono state 20.253. Circa la definizione precisa di mass shooting, invece, non c’è concordanza: per l’associazione no-profit Gun Violence Archive, si tratta di un episodio in cui almeno quattro persone vengono uccise o ferite da colpi di arma da fuoco. Secondo questa definizione, gli episodi di mass shooting del 2021 ammontano a 692, quelli del 2022 a 648. Tra questi, uno dei più cruenti è stato quello del 24 maggio 2022 che ha visto la morte di diciannove bambini e due insegnanti in una scuola elementare del Texas.
Un rapporto governativo del 2022 riferisce che negli ultimi vent’anni la produzione di armi da fuoco negli USA è quasi triplicata. Numeri che soddisfano, però, la domanda dei civili stessi.
Una percentuale che va dal 35% al 42% delle famiglie americane, infatti, possiede almeno un’arma da fuoco. Inoltre, secondo il progetto Small Arms Survey, negli USA ci sono circa 120,5 armi possedute ogni 100 abitanti. In pratica, più armi che civili.
La cultura delle armi negli USA
Politica, cultura o necessità: cosa si nasconde dietro questi numeri?
Nel 1970, lo storico Richard Hofstadter ha parlato per la prima volta di cultura delle armi, facendo riferimento al possesso delle armi in America come fatto culturale e ancestrale, oltre che politico, e provando a dare spiegazione dell’ampia diffusione del fenomeno. Ma negli anni, il possesso di un’arma da fuoco è stato spesso utilizzato dalla politica americana conservatrice come elemento ideologico. Così in discorsi da campagna elettorale, articoli di opinione, ma anche semplici tweet o post sui social, il possesso di armi da fuoco è diventato uno status associato all’essere “americano”, insomma un elemento nazionalista mascherato da patriottismo.
Nelle foto di famiglia o anche alle cene con gli amici, farsi ritrarre con le armi diventa un modo per dire «io sono americano e sono fiero di esserlo»: possedere un’arma e poterne disporre diventa simbolo della massima libertà che chi vive negli USA pensa di possedere. Il concetto di possedere un’arma non ha la valenza violenta che, da europei, siamo soliti attribuirgli, ma resta un paradosso il legare la libertà a uno strumento (un’arma) che ha come scopo quello di uccidere. Questa, ormai secolare, normalizzazione rende da un lato più semplice il poter entrare in possesso di un’arma in qualsiasi momento e dall’altro più difficile il vedere tutto ciò come minaccia alla libertà e alla sicurezza altrui.
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La normativa
Da un punto di vista normativo, a fondamento del diritto di possedere armi c’è il secondo emendamento della Carta dei Diritti degli Stati Uniti d’America. Questo emendamento è stato interpretato in modi diversi dalle Corti, in modo espansivo o restrittivo. Nel 2008, però, la Corte Suprema ha ufficialmente e definitivamente riconosciuto il diritto dei cittadini di possedere armi, rendendo incostituzionale ogni legge statale che vieti l’esercizio di tale diritto. Le leggi dei singoli Stati, poi, possono disciplinare alcuni aspetti come la possibilità o meno di portare l’arma in giro in via visibile o nascosta. In Alabama, ad esempio, è possibile portare un’arma a vista senza alcun tipo di permesso. In generale, l’acquisto di fucili e munizioni è permesso a partire dai diciotto anni, quello di altre armi da fuoco (ad esempio pistole) a partire dai ventuno.
Lo scorso anno è stato approvato il Bipartisan Safer Communities Act, una legge che introduce una disciplina più stringente. In particolare espande i controlli sui precedenti penali e sulla salute mentale per le persone minori di ventun anni e amplia il divieto d’acquisto previsto per le persone condannate per abusi domestici a nuove categorie. Sembra poco, ma in un ambito così rigido da scalfire, si è parlato di una prima possibile apertura verso un cambiamento. Tuttavia, in un anno poco è cambiato.
La stasi politica e le lobby
Nonostante i morti e le stragi, sembra strano che gli esponenti politici, in primis quelli conservatori, non facciano nulla per abolire o limitare il diritto alle armi. La spiegazione è sia nella cultura nazionalista diffusasi soprattutto nell’era Trump e diventata ormai uno stendardo di molti esponenti e gruppi conservatori, sia nell’influenza delle lobby delle armi che sono tra le più potenti nel panorama economico americano e supportano finanziariamente le campagne di molti politici i quali si trovano quindi “in debito” verso questi gruppi. Basti pensare che tra il 1998 e il 2020, le lobby delle armi hanno investito più di 171,9 milioni di dollari nella politica statunitense.
L’attuale presidente degli Stati Uniti Joe Biden sin dalla sua campagna elettorale aveva posto l’accento sulla necessità di restrizioni per garantire una maggiore sicurezza nazionale e il primo passo sembrava esser stato fatto con il Bipartisan Safer Communities Act sopracitato. A marzo del 2023, dopo l’ulteriore strage in una scuola elementare di Nashville che ha portato alla morte di tre bambini e tre adulti, il presidente ha rinnovato la sua richiesta al Congresso di reintrodurre una legge federale contro le armi d’assalto come quella che, tra il 1994 e il 2004, ha portato a una riduzione del 70% delle morti da mass shooting. Tuttavia, ripristinare questo divieto risulta quasi difficile alla luce dell’interpretazione del 2008 della Corte Suprema.
Che la risposta possa arrivare dai singoli stati? Possibile, attraverso l’approvazione di leggi di sicurezza più stringenti che, però, devono sempre muoversi nei limiti della legge federale come sta accadendo nel caso del Michigan.
Intanto, nel 2023 sono già più di centotrenta le stragi da arma da fuoco, già circa quattrocento i bambini e gli adolescenti uccisi da colpi di arma da fuoco. Lo stallo di una politica che rifiuta il cambiamento è colpevole di una delle principali cause di morte del Paese: su questo, la comunità internazionale stessa ha l’obbligo di esercitare nuove e forti pressioni.
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