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Nucleare, sì o no? Un punto di vista politico e filosofico

Quali sono i pro e quali i contro? Quali potrebbero essere le soluzioni? Esaminiamo una tematica tra le più discusse degli ultimi anni, da un punto di vista politico e filosofico.

19 minuti di lettura

Di nucleare si parla in abbondanza, particolarmente in riferimento alle sfide a cui questo periodo storico ci pone di fronte in termini di transizione ecologica e di bilancio di costi e benefici. Se ne parla anche come prospettiva futura, ma sempre tenendo presente le sconfitte e le tragedie che il passato non troppo lontano ci intima di prendere costantemente in considerazione: le bombe di Hiroshima e Nagasaki nel 1945, il disastro di Chernobyl nel 1986, le dispute riguardo all’accordo sul nucleare dal 2015 ad oggi quando si parla di USA, Iran e sicurezza internazionale.

Quando leggiamo o sentiamo il termine “nucleare“, malumori si affollano nella nostra mente, a buona ragione per molti aspetti, le parole a cui rimanda infatti sono due: energia e bomba. Le applicazioni a cui questa tecnologia si presta, quindi, sono molteplici e diverse: alcune per certi aspetti allettanti e altre terrificanti. Per questo motivo uno sguardo critico e nel contempo aperto alle diverse sfaccettature di uno dei temi più dibattuti della nostra contemporaneità è ciò a cui siamo chiamati. Per far fronte a una tale complessità, un approccio multidisciplinare è necessario: conoscere lo stato d’arte della vicenda e interrogarsi sui presupposti su cui considerazioni utilitaristiche si basano. Una cronaca constativa e una critica di carattere etico-politico sono richieste.

Come funziona l’energia nucleare?

di Ilaria Raggi

Per analizzare i vantaggi e gli svantaggi del nucleare, si deve innanzitutto capire qual è il modo in cui avviene la produzione di energia. Esistono due diversi processi utilizzabili: la fissione nucleare e la fusione nucleare, di cui il secondo è ancora in fase di sperimentazione.

Partendo dalla materia prima, ovvero gli atomi di uranio, attraverso la fissione nucleare si bombardano i nuclei degli atomi con un fascio di particelle a carica neutra e alto tasso di energia, in modo da permettere ai primi di dividersi in due. Da questa divisione fuoriesce energia e radioattività, e i due nuclei divisi possono a loro volta subire il medesimo procedimento.

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Questa reazione a catena nucleare è quindi in grado di produrre una quantità di energia enorme per il riscaldamento dell’acqua, l’attivazione dell’elettricità e l’utilizzo di forza a vapore. Il tutto a partire da un’unità minima. Rispetto all’impiego del carbone e ad altri combustibili fossili il risparmio è immenso, sia a livello di materie prime di partenza, sia a livello di emissioni di CO2.

I pro e i contro

È logico pensare che dopo l’incidente di Chernobyl la preoccupazione più grande sia stata quella di vedersi ripetere un simile disastro, ma attualmente c’è un problema certo e imminente che incombe, non quello di una potenziale eventualità. La non curanza e l’utilizzo sfrenato dei combustibili fossili per la costruzione della società odierna hanno condotto i grandi Stati a dover rivedere i propri piani e mettere un freno a quella definibile come “distruzione” del pianeta. Il passo più grande deve essere fatto a livello governativo mondiale e su quella che è attualmente la causa maggiore dell’inquinamento, proprio perché quella di maggiore impiego.

Dal lato opposto sorge però il problema dello smaltimento delle scorie, che è uno dei temi più sollevati da chi è contrario all’utilizzo di questa fonte di energia. Le scorie nucleari includono l’insieme degli oggetti e dei metalli che entrano a contatto con la radioattività, che scaturisce dal processo di divisione dei nuclei atomici. Queste necessitano di un luogo di isolamento specifico destinato a diventare il luogo di smaltimento delle scorie, che impiegano qualche secolo (se di bassa o media radioattività) o migliaio di anni (se di alta radioattività) per il decadimento.

Lo stoccaggio implica evidentemente dei costi unici nell’ambito della post-produzione di energia. In diversi paesi come USA, Francia, Spagna, Svezia, Regno Unito e Giappone, questi depositi sono moderni e avanzati. Si tratta di paesi che hanno continuato ad impiegare l’energia nucleare come fonte e che hanno investito su di essa in termini di ricerca, innovazione e sviluppo. Stati Uniti, Francia e Giappone si aggiudicano infatti il podio per numero di centrali attive, rispettivamente con un numero di centoquattro, cinquantotto e cinquantaquattro. Questi Paesi sfruttano i benefici in termini di costi e di emissioni, senza venire sopraffatti dalla problematica della logistica successiva, dovuta allo spegnimento delle vecchie centrali e allo smaltimento.

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La situazione italiana

Su una sponda ben diversa troviamo l’Italia. Nella penisola, la produzione di fonte nucleare si è arrestata definitivamente nel 1987 con l’esito di un referendum abrogativo proposto in seguito all’incidente di Chernobyl dell’anno precedente. Dopo il disastro accaduto nella centrale ucraina, molti paesi hanno preso decisioni definitive in merito, per evitare che una simile tragedia potesse anche solo essere ripensata. Nel 1990 si spensero le tre centrali ancora attive a Latina, Trino e Caorso. Il trattamento dei “rifiuti” è stato affidato alla società statale Sogin dal 1999. Dopo aver fissato una data limite per lo stoccaggio (2014) e lo smantellamento delle centrali (2020), si è assisto ad un progressivo slittamento del limite temporale, fino ad arrivare nel 2017 ad elaborare l’ultimo piano industriale che porta il limite al 2036. Tutto questo ha necessariamente dei costi. Costi che ammontano a 7,25 miliardi di euro e che vengono pagati dai contribuenti all’interno della bolletta elettrica.

Il risparmio che giova ad altri contribuenti, come ad esempio i francesi, non viene percepito in Italia, ma anzi al normale costo si aggiungono quelli dello smaltimento mal gestito da una società statale. Il fatto di aver smesso di investire nel processo di avanzamento sullo sviluppo di questa fonte energetica ha contribuito all’essere rimasti legati ad un’immagine statica ancorata agli anni Novanta e a ritrovarsi con un grosso problema di rifiuti.

Problema che inoltre potrebbe essere risolto ricorrendo ad un’altra modalità di produzione, ovvero la fusione nucleare. Il progetto che la prevede si chiama ITER ed è promosso da Cina, India, Giappone, Corea, Unione Europea, USA e Russia. L’idea è partita nel 1985 e prevede trentacinque anni di collaborazione tra i Paesi per la creazione della cosiddetta “net energy”.

Il problema dello stoccaggio sarebbe nettamente ridimensionato in quanto le scorie radioattive sono per il 90% a bassa intensità. La materia prima utilizzata come combustibile è estratta dall’acqua e il gas di scarico prodotto non è radioattivo in quanto si tratta di elio. Una svolta che avrebbe un grande impatto a livello di emissioni nocive per l’atmosfera.

Un aspetto indiretto della necessità di combustibili fossili e di gas naturale è l’interdipendenza tra gli Stati. Spesso la richiesta di quelle fonti provoca delle logiche e degli interessi di scambio politici ed economici che vengono sfruttati come possibili minacce. L’ultimo esempio eclatante si è manifestato con la crisi tra Polonia e Bielorussia. Con l’obiettivo di creare un clima estremo di instabilità politica sia all’interno del governo polacco, sia nelle sue relazioni con l’Unione Europea, la Bielorussia ha permesso a migliaia di persone provenienti da Turchia, Siria ed Emirati Arabi Uniti di arrivare nel paese, per poi spingerli al confine con la Polonia con la promessa di entrare in territorio europeo. La Polonia dalla sua parte ha schierato le armate di frontiera, e la conseguenza è adesso una tragica crisi umanitaria. Le persone muoiono ogni giorno e agli avvisi e intimazioni dell’Unione Europea di fermare questo estremo gioco politico, la Bielorussia risponde con un possibile blocco del gas naturale proveniente dalla Russia, di estrema importanza per i paesi dell’Unione.

I confini tra politica, economia e sviluppo sono sempre flessibili e si sovrappongono. Per questo quando si guarda all’autonomia energetica è fondamentale tener conto di tutte le possibili conseguenze nei diversi ambiti.

Nei nuovi accordi sul clima seguiti alla Cop26, il nucleare rimane un tema di dibattito tra i sostenitori e i contrari. Per il momento la soluzione non sembra essere chiara a nessuno degli attori in campo.

Una risposta probabilmente arriverà quando le necessità si faranno sempre più imminenti. Ma qual è la ragione per cui non si è in grado di scegliere?

Vantaggi da un lato e svantaggi dall’altro sono gli aspetti di cui tecnici e scienziati discutono soppesandoli accuratamente. D’altro canto, la tecnica del nucleare ci ripropone domande che affondano le loro radici nella storia del pensiero umano, le cui conclusioni ci invitano a riflettere un altro po’. Con Hans Jonas potremmo dire che forse non è ancora venuto il tempo di abbandonare quell’euristica della paura che ci permette di scorgere, oltre ai benefici, i danni potenziali che il nucleare comporta, senza cadere in moralismi o etichette.

La tecnica nucleare, al di là del bene e del male

di Giovanni Fava

I Greci imponevano a chi avesse raggiunto le qualifiche necessarie per esercitare la professione di medico di giurare: giurare di non compiere il male, ma agire per il bene, di utilizzare la tecnica acquisita, l’arte della medicina, non per annientare la vita, ma per salvarla, fortificarla, renderla di nuovo operativa dopo lo sbandamento della malattia. Ogni tecnica – è questa la premessa che fonda la necessità del giuramento, che oggi, peraltro, si continua a fare tra i medici – non contiene in sé il principio etico della propria regolamentazione, può essere cioè utilizzata sia a fin di bene che a fin di male. La medicina, allo stesso modo, può recuperare vite malate oppure, come testimonia il caso del medico Mengele, entrare nei campi di concentramento per squartare, dissezionare, sperimentare su corpi umani considerati oggetti.

Da un punto di vista filosofico, il problema relativo agli usi e agli sviluppi dell’energia nucleare è strettamente legato a quello della tecnica: il nucleare non è un male in sé, ma diviene male a seconda dell’uso che se ne fa. È il destino di ogni arte. Ad avere contenuto etico non fu l’equazione einsteiniana che sanciva l’equivalenza fra massa ed energia (tanto che Einstein era convinto non ci potessero essere significativi sviluppi pratici derivanti dalla sua formula), ma la lettera che egli scrisse a Roosevelt, incalzato tra gli altri da Fermi, intorno alla possibilità di sfruttare l’energia derivante dalla scissione atomica per costruire una bomba in grado di innescare un’ondata di distruzione mai vista prima.

I filosofi Karl Jaspers e Günther Anders furono tra i primi ad interessarsi, adottando una prospettiva propriamente speculativa alla questione dell’energia nucleare. Secondo Jaspers, che nell’autunno del ’56 tenne alcune conferenze trasmesse alla radio dedicate al tema, la bomba atomica rappresenta una «situazione-limite», ossia un momento di passaggio, di bivio, capace di condurre l’umanità o verso la rovina o verso una totale trasformazione della sua condizione etico-morale. Si tratta, diceva Jaspers, di una “crisi” nel senso originario del termine, una fase storica di frattura, riconfigurazione e decisione che avrebbe dovuto impegnare politicamente e praticamente l’umanità intera.

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Günther Anders, invece, che fu allievo di Martin Heidegger, dal quale ereditò per accentuare l’impostazione critica rispetto al problema della tecnica, sosteneva che la possibilità pratica dell’annientamento del genere umano – conseguenza della bomba atomica – avrebbe costretto la filosofia stessa a riformulare il suo modo classico d’intendersi. Il pensiero, scriveva Anders ne L’uomo è antiquato, non può esercitarsi nella forma del sistema, ma deve farlo in quella del frammento, o, meglio ancora, della “briciola”: interventi sparuti rispetto a questioni d’attualità. L’uomo, questa la tesi di Anders, è lasciato dietro dalla bomba atomica, è superato da essa, poiché non è più padrone dei suoi stessi prodotti.

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Ecco allora che sia con Jaspers che con Anders il nucleare diventa l’occasione per riflettere sul grande mito fondatore della civiltà occidentale, il mito del progresso, del continuo avanzamento dell’umanità verso la conoscenza ed il miglioramento delle proprie condizioni tecniche ed economiche. L’atomica rovescia questo paradigma: data la possibilità dell’uomo di auto-annientarsi, di mettere fine a tutta la storia che l’ha condotto sino a dove si trova, l’Illuminismo è destinato a ricadere, dialetticamente avrebbero detto Horkheimer ed Adorno, nella mitologia.

Una “soluzione” che mantiene i presupposti del problema?

Rispetto alla questione ecologica, di assoluta centralità nel mondo contemporaneo, il problema dell’energia nucleare va affrontato con lo stesso sguardo critico di quello relativo all’atomica. Nonostante la grande efficienza derivata dai processi di fissione di uranio e plutonio, i fatti sono che non siamo ancora in grado di affidare totalmente la produzione d’energia al nucleare. Le pretese di movimenti politico-economico-filosofici come l’ecomodernismo e l’accelerazionismo, che invocano una totale transizione “green”, capace di mantenere gli attuali livelli di produttività, sono infondate, poiché non fanno i conti, uno, con gli effetti disastrosi legati allo smaltimento delle scorie radioattive, e due, con i processi di privatizzazione che potrebbero intersecarsi alla costruzione e lo sviluppo delle centrali: se la polarizzazione della ricchezza si limita a riprodurre gli attuali meccanismi economici, con “pochi” che deterranno i mezzi di produzione, la questione dello sviluppo dell’energia nucleare si limiterà a spostare, senza risolvere, il problema.

Dobbiamo domandarci allora se non sia questo il presupposto per un’azione politica e sociale ben più radicale: rinunciare al tentativo di mantenere gli attuali standard produttivi per passare, sfruttando la «situazione-limite» costituita dalla crisi ecologica, ad una fase non di accelerazione ed accumulo, ma di decrescita e rallentamento. Più lenti, più profondi, più soavi, diceva Alexander Langer.

La questione rimane aperta e gli scenari futuri plausibili restano difficilmente scrutabili. Non sappiamo quale sarà il nostro domani, ma possiamo intravederne sia i potenziali benefici che i limiti strutturali di oggi.

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Ilaria Raggi

20 anni, studentessa di scienze politiche sociali ed internazionali. Nata con il mare sotto i piedi, ora mi accontento dei colli bolognesi. Se mi siedo o mi riposo c'è qualcosa che non va. John Steinbeck, il cinema e la scrittura sono il mio Sacro Graal, per il resto condisco la mia vita un po' di curcuma alla volta. Vivo di sarcasmo e politica internazionale, fortunatamente il periodo in cui sono nata mi permette di non dover mai scegliere l'uno o l'altro.

Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

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