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rivoluzione tunisina

L’occasione mancata della rivoluzione tunisina

Dalla newsletter n. 28 - maggio 2023 di Frammenti Rivista

12 minuti di lettura

La rivoluzione è il più forte atto politico che si possa immaginare. Spezza lo status quo, ribalta le gerarchie sociali, rade al suolo un modello di Stato per poterne costruire un altro. È rabbia, speranza, moto creativo e distruttivo, anarchia. A volte però la rivoluzione è anche illusione. Illusione di un cambiamento che sembra dietro l’angolo ma che non si concretizza, e anzi ci riporta al punto di partenza, come l’etimologia stessa della parola in realtà suggerirebbe che dovrebbe sempre accadere, in una lotta tra lo spirito radicale di chi lotta per un mondo diverso e un destino che invece vorrebbe solo riportare le cose al punto di partenza. Così accadde con la Rivoluzione francese e la Restaurazione, con la Rivoluzione Bolscevica e una dittatura che da proletaria divenne in pochi mesi di partito. Così sembra essere successo anche con quelle tante piccole e grandi sommosse popolari che infiammarono il mondo arabo poco più di un decennio fa, e delle quali ora in pochi ricordano cosa potessero significare per quella parte di mondo a cui invece dovremmo prestare tanta attenzione. Alcuni di questi paesi tornarono nel giro di brevissimo tempo al punto di partenza. L’Egitto di oggi, dal punto di vista politico, non è troppo diverso da quello che Hosni Mubarak governò per trent’anni, e non lo è nemmeno la Libia, dilaniata da una guerra civile a bassa tensione che prosegue da ormai tredici lunghi anni. I moti di protesta in Algeria non portarono alla caduta di Abdelaziz Bouteflika e la guerra civile siriana dilania il paese ormai da oltre un decennio. L’unica eccezione per lungo tempo sembrava essere quella rappresentata dalla Tunisia, un paese che, dopo essersi liberato da una dittatura durata ventitré lunghi anni, ha iniziato un processo di democratizzazione spontaneo, partecipato e che, almeno all’inizio, non ha esitato nel dare i suoi frutti. La costituzione del 2014 segnò un punto di svolta verso quella che sembrava destinata a diventare una democrazia vera, dove il pluralismo era incoraggiato e sostenuto, le libertà di espressione e di riunione tutelate e dove le elezioni sarebbero state vere, competitive e soprattutto condivise. Per alcuni anni, seppur tra molte difficoltà, il panorama politico tunisino ha rappresentato un unicum tra i paesi arabi, con l’opposizione rappresentata soprattutto dal partito di ispirazione islamista moderata Ennahda, riammesso nell’agone politico dopo trent’anni di bando durante il regime. Gli equilibri faticosamente raggiunti iniziarono a incrinarsi però durante la pandemia, quando con un colpo di mano e approfittando dello stato di emergenza momentaneo il presidente Kaïs Saïed esautorò il governo in carica, sospese i lavori del parlamento e accentrò su di sé i poteri, annunciando che a breve il popolo tunisino si sarebbe dovuto esprimere tramite un referendum su una nuova carta costituzionale. Il referendum avrebbe avuto luogo circa un anno più tardi, nell’estate del 2022.

Una deriva che arriva da lontano

Nonostante l’affluenza molto bassa, intorno al 30%, il 94% dei votanti approvò l’adozione della nuova carta, seppur di fatto contenesse diversi passi indietro riguardo il rispetto dei diritti, la separazione dei poteri e limitasse di fatto i meccanismi di check and balances. Soprattutto sotto il punto di vista dell’accentramento dei poteri il nuovo testo conferisce, infatti, al responsabile di Cartagine la facoltà di nominare e destituire i ministri del governo e le principali cariche del sistema giudiziario, proporre leggi e ratificare trattati internazionali. Il capo dello stato è anche comandante supremo della magistratura e delle forze armate. La nuova Costituzione autorizza poi il presidente a sciogliere il parlamento, notevolmente ridimensionato nelle sue funzioni, senza però includere disposizioni per l’impeachment della più alta carica della Repubblica, che non è soggetta a forme di controllo e viene dunque resa virtualmente inamovibile dall’incarico.

Alcuni analisti ed esperti del mondo arabo si sono spinti ad affermare che quel giorno è di fatto morta la rivoluzione tunisina che aveva cacciato Ben Ali dal potere solo pochi anni prima. Da un certo punto di vista è difficile dargli torto, visti anche gli ultimi sviluppi che hanno recentemente visto l’arresto proprio del leader di Ennahda, Rachid Ghannouchi, e delle fortissime limitazioni a cui tutti i partiti di opposizione devono far fronte. Dall’altra parte però ancora una volta, guardando a ciò che accade sull’altra sponda del Mediterraneo, corriamo il rischio di guardare la realtà con alcuni filtri che forse non ci permettono di coglierla fino in fondo. Ne L’Uomo in Rivolta, Albert Camus scrisse che «Lo schiavo comincia col reclamare giustizia e finisce per volere la sovranità. Ha bisogno di dominare a sua volta». In questa frase è racchiuso in parte il destino e la circolarità di tante rivoluzioni, che hanno segnato più o meno in profondità la nostra storia. La madre di tutte le rivoluzioni, quella Francese, iniziò con l’assassinio del Re e finì il 18 brumaio con la restaurazione di uno stato monarchico e personale. Sia chiaro, nessuno dubita che le conseguenze di ciò che accadde in Francia non abbiano contribuito a plasmare lo Stato contemporaneo, ma nessuno probabilmente il giorno in cui cadde la Bastiglia avrebbe scommesso sull’ascesa di un giovane ufficiale corso solo al vertice dello stato. Anche la Rivoluzione Iraniana del 1979 cominciò in parte come una rivoluzione borghese ed in poco tempo sfociò in una dittatura teocratica.  Nel caso della Tunisia, le rivolte erano cominciate quando un giovane ambulante, dopo che le autorità gli avevano sequestrato la licenza e il carro utilizzato per la merce, si diede fuoco davanti al palazzo del governatorato locale. Le proteste presero subito forza e si diffusero in un paese che viveva una profonda crisi economica e politica. Non fu la voglia di democrazia a far scendere la gente in piazza, fu la disperazione dettata da una società ingiusta, una società che non era più in grado di garantire un livello di qualità della vita accettabile per i suoi cittadini. Il fatto che oggi Kaïs  Saïed comunque tenga nei sondaggi, nonostante la disaffezione generale nella politica, dimostra che non vi fosse un’idea chiara di un modello sociale da adottare. La rivoluzione arrivò inaspettata, dirompente e spazzò via una classe politica incapace di gestire le piazze in rivolta, ma non è del tutto vero che ad animare quelle piazze ci fosse il desiderio di adottare un sistema democratico sul modello occidentale.

Un rimpianto destinato a durare

Ovviamente la Rivoluzione dei Gelsomini, come è stata battezzata successivamente, non ha la stessa portata di quella iraniana né tanto meno di quella francese, ma dovrebbe insegnarci qualcosa. Innanzitutto, è l’ennesima conferma che senza una regia chiara e senza un’idea di stato univoca e diffusamente accettata, il rischio che il potere cambi solamente volto perpetuando sé stesso è concreto e rientra in un dibattito sulla circolarità o linearità della Storia sempre attuale e interessante. In secondo luogo, entrando maggiormente nel concreto, ciò che è accaduto negli ultimi mesi dovrebbe ricordarci quanto sia fondamentale costruire rapporti stabili, franchi ma forti con la sponda meridionale del Mediterraneo. Quello che sta accadendo in questi giorni, con il numero di partenze di migranti che ha superato in pochi mesi il numero di quelli che salpano invece dalle coste di uno stato fallito come la Libia, con continue aggressioni ed episodi diffusi di razzismo e di linciaggi nei confronti di migranti subsahariani presenti in Tunisia, additati come causa di parte dei problemi del paese, nonché di mettere a rischio l’identità arabo-islamica del paese. Lo stato tunisino inoltre sembra procedere verso un accordo per un cospicuo prestito da parte dei BRICS che non può passare inosservato, dopo estenuanti mesi di trattative con l’FMI. Come nel caso del Sudan, dal quale gli occidentali hanno ritirato ogni tipo di aiuto economico e umanitario dopo il colpo di stato del 2019 e che ora sta scivolando velocemente nella guerra civile, ciò che sta accadendo in Tunisia ci ricorda la natura in sé distruttiva, creativa ma ambigua della rivoluzione. Una natura tormentata, a volte legata ad un processo democratico che non sempre, o quasi mai, agisce da fattore detonante. Quello che può fare una rivoluzione è piantare un seme. Le piazze che hanno animato il mondo arabo ormai più di dieci anni fa lo fecero. In nessun caso quel seme è mai germogliato, ma a Tunisi lo aveva fatto ed è giusto che adesso si guardi a ciò che accade a pochi chilometri dalle coste siciliane con un po’ di rimpianto. Forse per troppo tempo è stato fatto troppo poco per sostenere un processo lento e difficile, che però tanto avrebbe potuto donare ai suoi cittadini e a noi, che dell’altra sponda del Mediterraneo abbiamo bisogno ma della quale continuiamo a dimenticarci.

Michele Corti

Nato a Lecco nel 1996, studente di Scienze Politiche. Amo la montagna in ogni sua veste, il vento in faccia in bicicletta, la musica e provo a destreggiarmi nella politica internazionale, cosa fortunatamente più semplice rispetto a quella italiana."

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