In questi giorni a Parigi si sta svolgendo la decima edizione dei Gay Games, manifestazione sportiva che sta dividendo l’opinione pubblica. C’è veramente bisogno di qualcosa del genere, o questa manifestazione rischia di ghettizzare la comunità LGBT?
Un tentativo di inclusione
L’evento è, come si può immaginare, pubblicizzato sul sito dell’Ufficio del Turismo della capitale francese. Leggendo la pagina che gli è stata dedicata, si scopre che la manifestazione ha un nome sicuramente fuorviante.
Chiamarla Gay Games, infatti, lascerebbe presupporre che sia aperta solo ad atleti LGBT. La domanda, a quel punto, sorgerebbe spontanea: non bastano i giochi tradizionali? Chi vieta loro di prendervi parte? A onor del vero, bisogna dire che gli atleti di alcune nazioni possono fare più o meno tranquillamente coming out e sfruttare la manifestazione sportiva anche per continuare a sostenere la causa delle minoranze sessuali, mentre quelli provenienti da altri Paesi in cui l’omosessualità è punita con la morte o il carcere non potrebbero affatto fare una cosa del genere.
Questo, però, giustificherebbe poco l’idea di Olimpiadi riservate a membri della comunità LGBT, visto che gli atleti provenienti da nazioni in cui l’omosessualità è un reato subirebbero comunque gravi ripercussioni se vi partecipassero.
La bella notizia è che, stando al sito dell’Ufficio del Turismo, i Gay Games sono aperti a tutti. Si legge infatti che sono aperti a chiunque voglia mettersi in gioco, a prescindere da orientamento sessuale, età, etnia, religione e perfino preparazione sportiva. Solo per il gusto di stare insieme e cimentarsi in uno sport. Posta così, la manifestazione sembra molto più bella e inclusiva.
Le accuse di pinkwashing
Visto come stanno le cose, allora, perché parlare di Gay Games? Come si è detto, il titolo è fuorviante e desta non poche perplessità. Chi è omofobo ha detto che la potente (e inesistente) Lobby LGBT è diventata ormai abbastanza influente da farsi le sue Olimpiadi; chi non lo è si chiede se un’iniziativa simile, con un nome che suggerisce un’idea di ghettizzazione, possa davvero giovare a una comunità storicamente fin troppo a lungo lasciata ai margini della società.
Non sono mancate, in generale, le accuse di pinkwashing, ovvero di sfruttamento della causa LGBT e femminista solo per aumentare la propria visibilità e i propri profitti. Accuse che vengono mosse da tempo anche alle aziende che, in nome della corporate social responsibility (CSR), scelgono di schierarsi apertamente a favore delle minoranze sessuali.
Pubblicità e politiche inclusive
Chiunque si sarà accorto che negli ultimi anni molte aziende si sono apertamente schierate a favore dell’inclusione. Solo per fare un esempio recente, in occasione dell’ultimo Milano Pride il capoluogo lombardo è stato tappezzato di colori e simboli, sponsorizzati da diverse aziende, che riconducessero alla manifestazione: dal Grattacielo Unicredit illuminato con i colori dell’arcobaleno alla fermata di Porta Venezia con gli spazi pubblicitari comprati da Netflix.
Per chi chiede se le aziende in questione hanno intrapreso questa strada per aumentare i profitti, la risposta è sì. Risposta abbastanza lapalissiana: sono aziende a scopo di lucro, è scontato che il loro obiettivo finale sia chiudere il bilancio con un utile di esercizio.
Bisogna anche ricordare che viviamo in un’epoca in cui il consumatore, a parità di rapporto qualità/prezzo, tende a preferire prodotti di aziende promotrici di valori in cui questi si riconosce. Non c’è da stupirsi se le aziende si mostrano attente ai valori che possono stare a cuore al loro target di clienti.
Si può avere l’opinione che si vuole su iniziative simili. L’idea che cause anche nobili possano essere sostenute per aumentare i profitti di un’azienda farà sicuramente storcere il naso a tanti. Forse non hanno tutti i torti. Bisogna però tenere presente che a quasi 20 anni dall’inizio del XXI secolo sarebbe anacronistica un’azienda che rinuncia a cercare una vicinanza valoriale con i consumatori.
Inclusione con intelligenza
La risposta alla questione della CSR è: perché no? L’importante, come per tutte le cose, è che siano fatte con intelligenza, per fugare il più possibile le accuse di pinkwashing. I Gay Games rovinano, con il loro nome fuorviante, quella che poteva essere agli occhi di tutti una splendida iniziativa. Non sempre mettere riferimenti al mondo LGBT e ostentare attenzione alla causa paga, anzi. Meglio puntare all’inclusione vera e non ostentata a ogni costo. L’apprezzamento dell’opinione pubblica verrà da sé.