C’è fila fuori dallo studio del docente di letteratura italiana. Due ragazzi parlano sottovoce, un’altra picchietta frenetica sul cellulare, un giovane ha in mano una pila di fogli da cui spunta fuori il modulo di assegnazione della tesi di laurea. Ci troviamo in un’ipotetica Università X dell’Italia di oggi, con giovani laureandi in discipline umanistiche che, armati di sogni e belle speranze, aspettano di proporre al futuro relatore l’argomento prescelto per l’elaborato finale. Il lavoro più proprio del percorso di studi, la parola fine vergata con soddisfazione sul libro degli anni della formazione. Il docente li riceve, ascolta e dà consigli. Pirandello, Verga, Svevo, Calvino.
Leggi anche:
Luigi Pirandello: 148 anni di poesia
Prosatori come se piovesse, amori letterari del liceo approfonditi e sviscerati nel corso di lezioni universitarie, letture e studi personali. Non c’è traccia di poesia, o almeno non è di quello che si vuol parlare. D’Annunzio? Bei componimenti, ma discutiamo de Il piacere. Pasolini? Guai a proporre Le ceneri di Gramsci. L’aula in cui il professore ha presentato il corso sui Canti di Giacomo Leopardi rimanda ancora l’eco delle sommesse rimostranze di giovani contrariati. In Italia si legge poca poesia, e la si legge male. I ragazzi non conoscono la bellezza dei versi, né sanno comprenderla. In un Paese che assiste alla drammatica riduzione del numero dei suoi lettori senza muovere un dito, la situazione stagnante in cui versa il campo poetico è preoccupante.
Leggi anche:
Giacomo Leopardi e l’inganno estremo del Ciclo di Aspasia
Leggi anche:
Giovanni Verga: voce al servizio di una terra dimenticata
Figli e figliastri dunque, anche nel campo della letteratura che pur naviga in cattive e torbide acque. Prosa batte poesia come carta batte sasso e, sebbene nelle Feltrinelli le orde di ragazzine si accalchino quasi solo per sentire il divo del talent che presenta il proprio disco, c’è da dire che è più facile vedere un giovane uscire con un Philip Roth in mano (quando va bene…) che con Silenzi di Emily Dickinson. Guanda ha chiuso la sua collana di poesia, le piccole botteghe librarie vedono ingiallire ancor di più le pagine di quei volumi costretti alla difficile convivenza con i parenti a riga continua. Se Vasco Pratolini diceva che «i versi sono un modo di andare più presto a capo», dall’altro lato c’è chi proprio non riesce a superare l’assoluta e necessaria differenza tra componimenti poetici e pagine in prosa. Troppo sibillini i primi, apparentemente più accessibili i secondi. Se la scuola li ha resi entrambi materia di studio da digerire sotto il peso dell’obbligo, meglio smarcarsi dall’elemento più scomodo e dedicare qualche ora d’interesse personale a una storia che fila senza troppe simmetrie, rimandi, giochi di prestigio. Rifugiarsi in poliptoti e litote è roba da emicrania, lasciamola alle schede di approfondimento del manuale del liceo.
Leggi anche:
Emily Dickinson: «la mia solitudine è lo spazio»
Che la prosa sia poi effettivamente più abbordabile della poesia è tutto da discutere; senza risalire troppo indietro scomodando mostri sacri della letteratura nostrana, uno degli autori più importanti del panorama anglo-americano ha dato vita a un romanzo rompicapo di cui, nemmeno dopo una seconda lettura, si riesce a sondare il fondo. Si tratta di Città di vetro di Paul Auster, una cascata di dubbie identità, doppi e menzogne in grado di dar vita a un gomitolo di relazioni fitte e intricate da far impallidire lo gnommero gaddiano. La sensazione a fine lettura è pari al senso di spaesamento che si prova quando scendendo dal treno ci si accorge di aver sbagliato fermata, non si parla la lingua e comunicare per chiedere informazioni risulta estremamente complicato. Insomma, di fronte a certe pagine elaborate leggere Paul Verlaine risulta addirittura un gioco da ragazzi.
Leggi anche:
«Femmes» e «Hombres», gli scandalosi versi erotici di Paul Verlaine
Leggi anche:
«La coscienza di Zeno» e il successo sveviano di un antieroe
Resta comunque il fatto che, come affermava la croce e delizia dei liceali italiani, il poeta recanatese di suprema statura, la poesia va «letta e meditata». In un mondo in cui tutto è a portata di click, l’idea di soffermarsi anche solo qualche minuto su un testo scritto provoca noia e repulsione. Il ragionamento viene accantonato a favore della comprensione immediata e, se questa non c’è, non vale la pena di indugiare un po’ di più. Nessuno oserebbe mai leggere Rainer Maria Rilke in metropolitana, o adagiato sul divano mentre i parenti guardano la tv, semplicemente perché non potrebbe ricavarne la giusta comprensione. Assaporare poesia richiede tempo, spazio e disposizione d’animo. Interiorizzare un verso non è come bere un bicchiere di prosecco in compagnia di amici. Si deve recuperare la lettura lenta, allontanarsi dalla prosaicità della vita, recuperare i ritmi che pertengono all’uomo almeno per qualche ora al giorno.
Leggi anche:
Italo Calvino alle radici: l’importanza dei racconti
Il grande nemico della poesia è il tran tran della vita quotidiana che si mischia all’abitudine, alla paura di uscire fuori dall’orticello sicuro delle proprie conoscenze. È semplice accostarsi a un romanzo perché ne abbiamo letti a bizzeffe, meno agile è tuffarsi nel terreno del non detto e mai fatto, allontanarsi da quei codici inculcateci dalla scuola che, stretta nella morsa dei programmi ministeriali, è costretta a compendiare decenni di capolavori in pochi mesi. Non capiremo mai Quasimodo se continuiamo ad accostarci ai suoi componimenti con le reminiscenze del passato, né tanto meno se cannibalizziamo un suo verso per fare sfoggio di pseudo cultura sui social network, morbo della vita odierna. Se si porta alla mente Alda Merini e l’uso improprio che delle sue parole è fatto in rete, viene da chiedersi quando e dove si sia imparato a estrapolare parti del discorso e darne il senso che si vuole. Il taglia e cuci da tastiera è un pericolo grandissimo per la poesia, nonché l’ennesimo segnale preoccupante nella strada che la lettura sta prendendo nel nostro Paese. Si legge poco e lo si fa per darsi lustro, a volte per far vincere la forma sulla sostanza, il fast sul low, il semplice sul ragionato. Se si dovesse scrivere un elogio dell’indugio, partirebbe proprio dalla necessità di riscoprire la lentezza, priva di fronzoli e sciatterie da tornaconto. E la poesia, in un mondo in cui siamo bombardati da messaggistica istantanea e slogan rapidi e indolori, può ancora essere quella ginnastica del pensiero volta a forzare le tante opacità mentali che i tempi impongono.
Leggi anche:
Alda Merini: la sua poesia tra amore, talento e lucida follia
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!
Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!