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Le misure anti-contagio nell’Inghilterra della peste bubbonica

Qual era la concezione della peste bubbonica nella medicina del Seicento? E quali misure anti-contagio si adottarono a Londra per arginarla?

4 minuti di lettura

Peste bubbonica e Medioevo sono due concetti che vanno a braccetto, nell’immaginario comune. In effetti, si potrebbe dire che la peste ebbe la meglio sull’Europa dal XIV al XVIII secolo, ritornando a ondate. È interessante, però, andare oltre le analisi degli storici contemporanei e tentare di osservare la peste con gli occhi di chi l’ha vissuta, secoli fa.

Delimitati un tempo e uno spazio precisi – l’Inghilterra del primo periodo moderno – questo articolo prenderà a campione un trattato inglese del Seicento per esplorare la concezione della peste bubbonica nella medicina dell’epoca, nonché le misure anti-contagio che si adottarono nel tentativo di arginarla.

Cosa si intende per “primo periodo moderno”

La denominazione “primo periodo moderno” (early modern period in inglese) è stata oggetto di discussioni da parte di numerosi storici, che hanno tentato di delimitarne i contorni temporali. In questa sede, si considererà l’intervallo 1500-1750 come quello più appropriato, poiché esso abbraccia eventi epocali per la storia del paese, come la diffusione della stampa, la nascita del Protestantesimo e della Chiesa d’Inghilterra, il cambio di dinastia dai Tudor agli Stuart, la guerra civile e la Gloriosa Rivoluzione.

La situazione sanitaria nell’Inghilterra early modern

Senza gli ospedali a conservare i censimenti delle morti, i documenti più rilevanti sotto questo punto di vista erano i cosiddetti bills of mortality, ovvero i verbali di mortalità, compilati dalle parrocchie. Queste statistiche dimostrano come, tra il XVI e il XVIII secolo, la mortalità infantile in Inghilterra si aggirasse attorno ai 140 decessi su 1000 nascite – dunque, il 14%. Se consideriamo che una donna, nell’arco di quindici anni, andava incontro a quasi una decina di parti, non stupisce che molti di questi neonati nascessero già morti. Qualora il bambino sopravvivesse al parto, poteva infettarsi e morire, prima dei quindici anni, di una miriade di patologie, tra cui scarlattina, influenza, polmonite, dissenteria, vaiolo e pertosse.

Morti di peste per strada (illustrazione)

Anche nel caso in cui il soggetto sopravvivesse, poteva comunque trascinarsi dietro per tutta la vita una serie di strascichi, come le cicatrici del morbillo o addirittura la cecità e la sordità della scarlattina. Alla contagiosità di queste malattie contribuiva altresì l’ambiente: le città si prestavano a essere molto più letali della campagna, dove la densità abitativa era minore e l’aria meno soggetta a impregnarsi di miasmi velenosi. La tubercolosi, il tifo, il vaiolo e la peste, che sono patologie da contatto, provocavano stragi nelle città – basti pensare che la peste uccise un quinto della popolazione londinese tra il 1563 e il 1665.

La peste bubbonica

Qualsiasi censimento completo delle malattie più diffuse nell’Inghilterra della prima età moderna deve partire dalla peste bubbonica, che sarà il punto focale del nostro articolo.

Vi furono differenti ondate di peste nel paese, ma la più letale fu quella del 1665, tutt’oggi ricordata dalla storiografia mondiale come The Great Plague of London. Qualche studioso parla di 80mila morti nella sola capitale, ma altri ne contano persino 100mila. La peste, unita all’incendio di proporzioni mastodontiche scoppiato soltanto l’anno dopo, mise la capitale letteralmente in ginocchio. La scienza patologica oggi ci spiega che la peste era causata dal bacillo Yersinia pestis, trasmesso ai ratti comuni (Rattus rattus) da una pulce (la Cerotophyllus fasciatus nei climi temperati). Gli esseri umani infettati – attraverso il morso dell’insetto o dopo il contatto con materiale ammorbato – manifestavano una febbre violenta, seguita dal rigonfiamento dei linfonodi, da cui l’aggettivo “bubbonica”.

Eziologia seicentesca della peste

Le cause della peste bubbonica per la medicina del tempo erano naturalmente influenzate dalla teoria umorale – la dottrina medica formulata da Ippocrate e perfezionata da Galeno, secondo cui il corpo era dominato da quattro liquidi biologici, detti umori: il sangue, la flemma, la bile gialla e la bile nera. Collegata al galenismo era la teoria dei miasmi, dei vapori tossici provenienti dal terreno che corrompevano l’aria e, di conseguenza, tutto l’organismo. Si credeva che la peste si diffondesse, appunto, attraverso i miasmi, ma c’era anche una grande fetta della popolazione incolpava i fenomeni celesti, come una sfortunata congiunzione dei pianeti, o il passaggio di una cometa; molti altri ancora motivavano l’epidemia con una punizione divina per i peccati commessi dall’uomo. Fu soltanto con lo sviluppo della batteriologia, nella seconda metà dell’Ottocento, che la peste bubbonica fu classificata e compresa.

Buone pratiche contro la peste

Fossa comune per i cadaveri della peste
Una fossa comune per i cadaveri infetti dalla peste

Il farmacista William Boghurst fu autore, nel 1666, del trattato Loimographia, or an Experimentall Relation of the Plague, documento prezioso per la comprensione delle misure anti-contagio adottate nella capitale, nonché delle deduzioni sintomatologiche dei medici del tempo. Boghurst annoverava febbre, tremori, vomito, malinconia e delirio tra i primi sintomi della peste, succeduti dai tipici bubboni e i carbonchi, o antraci, ovvero delle ulcere scure sulla pelle. Il trattamento più comune implicava l’utilizzo di purghe ed emetici, accompagnati da frequenti salassi, il tutto con l’obiettivo di eliminare gli umori avvelenati dalla malattia. Considerata l’alta carica virale, di cui, pur senza usare questa nozione, già erano coscienti i medici dell’epoca, il sindaco e la Corte degli Aldermen vararono una serie di dieci regolamentazioni per la sanità pubblica:

  • Elezione di controllori porta a porta, col potere di chiudere le case giudicate infette;
  • Posizionamento di due guardie, una diurna e una notturna, davanti alle case infette;
  • Elezione di chirurghi specificatamente per l’autopsia dei cadaveri infetti;
  • Obbligo del padrone di casa di notificare immediatamente le autorità nell’eventualità di uno o più membri della famiglia infetti;
  • Divieto di sepoltura prima dell’alba o dopo il tramonto;
  • Marcatura delle dimore infette con una croce rossa sulla porta, accompagnata dalla scritta “Lord have mercy upon us”;
  • Obbligo di quarantena totale di quattro settimane per le dimore infette, con provviste di cibo effettuate dalle guardie;
  • Pulizia delle strade e soppressione di animali selvatici o randagi;
  • Divieto ai mendicanti di esercitare per strada;
  • Divieto a cantanti, musicisti di strada e saltimbanchi di praticare la propria attività.

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L’ultima epidemia

È interessante rilevare come alcuni di questi provvedimenti, alla lunga, si siano dimostrati più dannosi che benefici. Ad esempio, la chiusura totale delle case condannava tutti gli occupanti a una morte certa, anche quelli che potevano essere ancora sani, mentre l’eliminazione di gatti e cani non fece che aumentare la popolazione dei ratti. 

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Nonostante ciò, come ogni malattia sul pianeta, anche la peste perse la sua carica virale, per poi sparire. Fu l’ultima vera epidemia a interessare la capitale inglese… fino al Covid.

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Caterina Cantoni

Classe 1998, ho studiato Lingue e Letterature Straniere all'Università Statale di Milano. Ammaliata da quella tragicità che solo la letteratura russa sa toccare, ho dato il mio cuore a Dostoevskij e a Majakovskij. Viale del tramonto, La finestra sul cortile e Ritorno al futuro sono tra i miei film preferiti, ma ho anche un debole per l'animazione. A volte mi rattristo perché so che non mi basterebbero cento vite per imparare tutto ciò che vorrei.

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