L’oro per noi è monete, medaglie, anelli, collane. È il simbolo della ricchezza per antonomasia. Un tempo, quando comandavano l’alchimia e la magia, l’oro non era un mero materiale. Esso aveva proprietà spirituali insite in sé, che necessitavano di essere liberate. Le sue caratteristiche principali (brillantezza e resistenza) erano indizi della sua incorruttibilità. Proprio questa caratteristica, che era ciò che faceva più gola agli alchimisti e ai medici, era considerata la chiave di una delle imprese più antiche dell’umanità: la ricerca dell’immortalità.
Le origini dell’Aurum Potabile
Tra il XIII e il XIV secolo, il medico catalano Arnaldo de Villanova, consigliere del re d’Aragona e persino del papa, fu tra i primi a decantare le virtù terapeutiche dell’Oro Liquido. Poiché resistente ai solventi, l’oro era considerato un siero dell’immortalità, capace di rinforzare il corpo e rallentare l’invecchiamento. Di questo era convinto anche Paracelso, il più influente uomo di medicina del XVI secolo, padre della iatrochimica, fautore dell’utilizzo della chimica nella preparazione di rimedi. Tuttavia, risalire alla ricetta originale dell’oro liquido (ai tempi conosciuto come Aurum Potabile) è un’ardua impresa, poiché medici e alchimisti hanno alterato, nei secoli, la formulazione degli ingredienti, nel tentativo di legare il proprio nome a uno dei rimedi più celebri e celebrati.
L’Aurum Potabile aveva diversi metodi di preparazione. Raccogliere informazioni direttamente dai manoscritti e confrontarle aiuta a comprendere la malleabilità e, soprattutto, l’instabilità dei rimedi medici non solo del periodo medievale, ma anche del primo periodo moderno. Prendiamo, come esempio, questo primo campione di testo, di epoca sconosciuta:
Far cuocere della borragine, della buglossa comune e della melissa in acqua di rose, dove avrete precedentemente sciolto dello zucchero bianco. Aggiungere tre foglie d’oro, insieme a una piccola dose di vino bianco di colore dorato. Prendere poi acqua distillata, aggiungere qualche fiocco d’oro precedentemente sciolto, e far raffreddare in acqua di sorgente pulita. Mescolare il tutto nel vino bianco e ammorbidire la bevanda con un tuorlo d’uovo fresco.
Una ricetta risalente al 1684 propone invece una versione più speziata:
Raccogliere fiori di mughetto, conservarli in una bottiglia di vetro per poi aggiungere un vino forte, violacciocca, rosmarino, salvia e lavanda. Posizionare all’ombra e mischiare quotidianamente. Incorporare cannella macinata, noce moscata, fiori di camomilla e, tre giorni prima della distillazione, aggiungere tre monete d’oro.
Gli elementi comuni a tutte le versioni parrebbero essere la consistenza e il dosaggio. L’Aurum Potabile si mostrava quasi sempre come un liquido oleoso, di colore giallo scuro; si consigliava di assumerlo una o due volte al giorno prima dei pasti per quattro giorni. Era, alla fine, un vero e proprio elisir, perché si riteneva curasse un ventaglio di malattie e disturbi differenti: la gotta, i reumatismi, l’appendicite e il dolore epigastrico.
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Diana di Poitiers e il segreto della bellezza
Duchessa, contessa, intenditrice d’arte e mecenate: Diana di Poitiers, sin dall’infanzia, era cresciuta nel fecondo terreno dell’Umanesimo, padroneggiando le lingue antiche, la retorica, l’economia, la giurisprudenza e l’arte. Proprio per la sua incredibile cultura, ma ancora di più per il suo aspetto, Diana divenne presto la favorita del re Enrico II di Valois (il quale, al tempo delle loro prime corrispondenze epistolari, aveva quindici anni, contro i trentacinque di lei).
Nel ricordare la sua ammirevole bellezza, un cronista suo contemporaneo scriveva: «La vidi a settant’anni d’età con un viso affascinante, fresco e incantevole come quando aveva trentacinque anni. Aveva una pelle particolarmente bianca, senza alcun trucco». Tralasciando l’approssimazione dell’età (Diana era morta a sessantasei anni, nel 1565), ricordiamo che il candore della pelle era considerato un segno di nobiltà, e dunque un attributo desiderabile. Tuttavia, come poi il testo svela, il segreto dell’apparenza porcellanacea di Diana di Poitiers era proprio l’Aurum Potabile, un’affermazione confermata dall’analisi dei resti e dei capelli della nobildonna effettuata nel 2010 da un gruppo di scienziati.
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Il suo corpo mummificato, dissotterrato ai tempi della Rivoluzione francese, fu sepolto nuovamente, ma non prima di aver prelevato dei campioni che dimostrarono un’eccedenza di oro nei liquidi di putrefazione. Anche i capelli, di cui era stata conservata una ciocca nel castello di Anet, comprovarono una concentrazione di oro 500 volte superiore ai valori di riferimento, mostrando inoltre l’assottigliamento tipico di intossicazione da oro.
Un elisir della morte
Con il distacco critico guadagnato da secoli di distanza, è difficile non captare l’ironia di un elisir di giovinezza che, invece di rallentare il percorso dei suoi fruitori verso la morte, li getta dritti nelle sue braccia. Lo stesso distacco ci permette altresì di ricordare che la medicina è stata una delle discipline col più lento progresso nel corso dei secoli. Sebbene nuove scoperte arrivassero a sconvolgere l’intero panorama scientifico (pensiamo alla variolizzazione o alla scoperta della circolazione sanguigna), la medicina fu ancorata per troppo tempo a sistemi di pensiero obsoleti. L’Aurum Potabile, prodotto della iatrochimica, che altro non è se non l’unione di alchimia e chimica, è un perfetto esempio di questa fissità epistemologica, ma è anche una testimonianza del fascino perverso della terapeutica medievale.
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