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Roth

Philip Roth ha reso comprensibile l’incomprensibile

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10 minuti di lettura

Se è scoppiata una bomba o una comitiva di giovani universitari decide di ribellarsi, se una giovane donna si innamora e un giovane uomo parte, se la storia è una storia reale, di disgrazie, perdite, illusioni, di amori finiti, di rimpianti e reminiscenze, Philip Roth riesce a raccontarla. E tanto basta a renderlo l’autore per antonomasia. Tanto è bastato per creare un nome, una storia che continua a raccontarsi tra le pagine dei suoi romanzi, anno dopo anno, vicissitudine dopo vicissitudine.

Philip Roth ha sempre avuto una capacità intrinseca, rara e tanto peculiare, di entrare sotto la pelle. Non è fraintendibile, alla luce del sole si rivela nella sua magnificenza e ancora, tanto basta. Ciò che lo ha reso l’autore più celebre e più caratterizzante della nostra generazione, è stata la sua capacità di saper raccontare oltre le apparenze. Di dire la realtà com’è, senza arzigogolati espedienti letterari che lo avrebbero reso inutilmente prolisso, detestabilmente commerciale, terribilmente incompreso.

Philip Roth: il peso dell’esistenza

Ciò che Philip Roth ci dice è semplice e lineare: la realtà è complessa, composta di mille sfaccettature, di secolari incomprensioni e terrificanti malesseri. La vita è dolore, è perdita, è un continuo riscoprirsi e reinventarsi al fine di adattarsi ai cambiamenti che spesso è impossibile discernere. La vita è difficile ed è il motivo per cui vale la pena viverla.

Il compito primo della letteratura realistica è quello di trasportare il proprio io in un mondo onnicomprensivo, metaletterario, in cui il lettore diventa narratore e il narratore diventa autore della tua storia che, guarda caso, è la storia che stai leggendo. Roth ha questa capacità peculiare di rendere ogni storia raccontata parte integrante degli occhi che la stanno freneticamente leggendo – perché in questo modo si legge Roth: di corsa, senza interruzioni, pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo. Ed è questo ad averlo reso, al contempo, eterogeneo ed estremamente coerente a sé stesso.

Il senso ultimo della scrittura di Roth è che siamo esseri umani e, in quanto tali, sbagliamo. Sbagliamo continuamente. Come padri, come figli, come amanti, come amici e nemici. Commettiamo errori, ripercorriamo strade, e nel tentativo di riparare l’irreparabile, ne commettiamo altri. Questo è il significato proprio dell’esistenza. E non c’è redenzione, non esiste una soluzione coerente, salvifica, che riporti alla luce il Peccato ultimo e lo redima da tutte le scorie impure al fine di renderlo presagio di una salvazione ultima. Sbagliamo. Dobbiamo sbagliare. È necessario al fine di perseguire il lungo, intricato, percorso – che è l’esistenza propria –, composto di bivi e scelte ardue che sono altri errori ed altre ottenebranti collisioni. Ed è meravigliosamente giusto che sia così.

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Tutto in Roth diventa fraintendibile e improvvisamente deve essere frainteso, perché non è un filosofo, Roth è un uomo, è un realista, ed è consapevole del valore della vita, del fatto che sia necessario avere punti di vista bifocali, paralleli, contrapposti, dove è necessario viaggiare su due rotaie diametralmente opposte. Le incomprensioni, le umiliazioni, le indignazioni: i carnefici di noi stessi siamo noi. Solo noi. E non c’è via di scampo, non c’è liberazione. Siamo incatenati al senso della nostra esistenza, che è quella di essere così terribilmente effimeri, così inscindibilmente labili, così disperatamente fragili.

Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d’acciaio spesse quindici centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario, camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cigoli, e l’affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima d’incontrarla, mentre pregusti il momento in cui l’incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell’incontro, e scopri ancora una volta di aver travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è, veramente, una colossale priva di fondamenta, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l’intimo lavorio e gli scopri invisibili degli altri? […]
Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando.

[da Pastorale Americana, 1997]

Se scriveva di sesso raccontava di sesso. I suoi non erano romanzi vittoriani. Il sesso è erotismo, è carne e sudore. È reale e palpabile. Se parlava di morte raccontava di perdite e di dolore, di atrocità e devastazione.

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Non lasciava nulla al caso, in intricati periodi di coordinate e subordinate che riassumevano il valore proprio delle cose. Il senso caratterizzante dell’Io, prima ancora di quello degli Altri, che è necessario comprendere al fine di comprendere sé stessi, in una dicotomia hegeliana ricorrente e magistralmente interpretata. Il suo era un imperativo categorico, si avvalorava nel tempo, prendeva forma nella mente del lettore, diveniva soggetto agente e Leitmotiv reiterato.

Perché leggerlo

Quindi va bene anche se domani entrerete in una libreria o in una biblioteca e prenderete in mano per la prima volta un libro di Roth, che sia le Nemesi, Pastorale Americana o qualunque altro. Che lo facciate perché in questi giorni tutti hanno parlato di lui, o perché mozzichi di suoi libri navigano alla velocità della luce sui social network, poco importa. Il senso ultimo della vita di uno Scrittore è uno ed uno solo: essere letto. E la morte connaturata non lo demistifica, anzi, lo avvalora, rendendolo Monumento alla Letteratura, inciso nella Lapide del cimitero dei Grandi Scrittori, a fianco di Svevo, Calvino, Proust e tutti gli altri. Se muore la carne, la lettera stampata rimane ai posteri. Il senso di tutto risiede proprio in questo.

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Ma leggete Roth. Leggetelo a perdifiato, sui treni, nelle pause pranzo, in giardino o sotto le coperte. Leggetelo e rileggetelo, che alla seconda lettura comprenderete sfaccettature fraintese alla prima. E alla terza coglierete il senso onnicomprensivo della sua opera, ossia che un senso non c’è, ed è perversamente giusto che sia così.

Il Nobel lo meritava, Philip Roth. Meritava quel Premio che era il traguardo di una vita spasmodicamente dedicata alla letteratura. Di tanti scrittori si ricorda prima la persona, poi l’opera omnia. Di Roth si ricorderà il suo lavoro, il grande, immenso scopo della sua nascita: essere letto, essere capito e, ancora di più, essere amato per la sua semplicità, per la profondità tramutata in leggerezza, per la svogliatezza e la naturalezza dedicata al compito sommo della scrittura. Ci ricorderemo di lui anche se quel Premio non l’ha mai ricevuto.

Gli sovvien l’eterno, ora. La morte è irreparabile. Ma ci lascia cimeli che continueranno ad essere pubblicati e ripubblicati, letti e riletti dalle nuove generazioni. Perché in lui risiedeva la corretta dialettica, il senso ultimo del perché leggere i classici calviniano. E noi gliene saremo eternamente grati.  

 


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Giulia Lamponi

Giulia, Bologna, studentessa di Lettere Moderne, amante della letteratura, aspirante giornalista. Ogni tanto scrivo, ma più che altro penso.

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