Non stupitevi se non lo sapete. Non stupitevi se un sistema di informazione fermo a contare le vittime italiane tra i morti di un qualsivoglia massacro non ve l’ha mai detto. Sono decine di migliaia i contadini che da 8 mesi (8 mesi!) sono accampati alle porte di Nuova Delhi, in India. A separarli dal resto della città, il filo spinato e le camionette della polizia. Forse sono meno pop dei Black Lives Matter, ma sono tanti, affamati e pronti a tutto. Cosa vogliono i contadini indiani? E perché dovrebbe interessarci?
Dal colonialismo all’imperialismo in India
I fatti, anzitutto. Quando, nel 1947, gli inglesi se ne andarono dall’India, arrivarono al loro posto gli americani. Finiva il colonialismo, iniziava l’imperialismo. L’India dell’epoca, arretrata e vessata dalle carestie, si ritrovò catapultata nella green revolution. In poche parole, vagonate di pesticidi e concentrazione di tutta la produzione su grano e riso, a discapito di tutte le altre forme di agricoltura. Un meccanismo che non ha solo fermato le carestie, ma che ha anche creato una sovrapproduzione. E, si sa, quando c’è sovrapproduzione c’è disuguaglianza.
L’importanza dei mandi per i contadini indiani
Il sistema usato finora per vendere l’eccesso di produzione era quello dei mandi. In poche parole, mercati generali statali. Il contadino, al mandi, metteva all’asta il suo raccolto, con una base minima stabilita a livello statale, vendendo il prodotto a degli “intermediari” che si occupavano poi di mandarlo ai supermercati o di immagazzinarlo. Le trattative fuori dal mandi erano concesse ma prevedevano una tassazione più alta ed erano comunque rare (il mandi, per i contadini, rappresenta la certezza di un guadagno minimo ma sicuro).
La situazione economica dell’India
Ad oggi, per l’India ancora nessuna pace. La situazione dell’agricoltura ed economica in generale non è infatti rosea. Oltre il 50% degli indiani sono contadini (per questo la protesta fa paura al governo), ma l’agricoltura occupa solo il 17-18% del PIL del paese (PIL che, per inciso, è passato in 50 anni da 67 a 2700 miliardi di dollari mantenendo però la ricchezza media pro capite sui 5-25 mila dollari). La poca domanda, il riscaldamento globale che costringe città intere a stare senza acqua (la siccità è forse il problema più grande dell’India di oggi) e i prezzi altissimi delle sementi (vendute principalmente dalla Monsanto) costringono i contadini, che in gran parte hanno appezzamenti di terra più piccoli di un ettaro, ad indebitarsi. Si indebitano e quando non possono ripagare, cioè spesso, vendono il loro terreno alle multinazionali oppure si suicidano (ogni anno 12mila contadini si uccidono).
Le tre leggi del governo Modi
Basterebbe fermarsi qui per capire le proteste dei contadini indiani, ma non è ancora tutto. Infatti, il premier indiano Narendra Modi (personaggio discussissimo per la sua vicinanza alla “democrazia illiberale” e per la sua poca sensibilità verso ambiente e disoccupazione) ha fatto approvare, non senza critiche, tre leggi che hanno scatenato il putiferio. In una si elimina il livello limite di beni primari che si possono immagazzinare per legge (con grande gioia degli speculatori) rischiando quindi la perdita di controllo sui prezzi. Il succo delle altre due è alleviare il controllo dello Stato e “lasciare i contadini liberi di trattare in autonomia senza intermediari” con le multinazionali. I mandi non sono ufficialmente aboliti, ma la realtà è che, laddove queste leggi sono state rispettate, i mandi hanno di fatto chiuso i battenti. E, lo si capisce, lasciare i contadini soli di fronte alle grandi aziende è come mettere Davide a contrattare con Golia: le multinazionali avranno sempre più potere contrattuale di un contadino sul lastrico.
Le proteste dei contadini indiani
Le proteste, inizialmente piccole e poi ingrossatesi fino all’occupazione delle arterie principali di accesso a Nuova Delhi, hanno incontrato la repressione nel sangue della polizia (si contano circa 50 morti per ora, ma sono stime grossolane) e, addirittura, il blocco di internet in diversi stati. Ad oggi, le leggi sono state preventivamente sospese (non abrogate) per 18 mesi, viste le proteste, ma si è ancora lontani dal trovare un accordo (i pochi tavoli governo-sindacati sono finiti in bisticci).
Perché ci dobbiamo occupare (per davvero) dei contadini indiani
Su questa faccenda non può continuare la solita ipocrisia dei media occidentali, che liquidano tutto con due smorfie di compassione, l’ultima cosa di cui i contadini avrebbero bisogno e l’unica cosa che sembriamo davvero disposti a concedere di fronte a drammi come questo. Non solo perché la pietà e la compassione sono forme di autocompiacimento, ma anche perché non abbiamo alcun diritto di chiamarci fuori da questa vicenda, come se in India non ci fosse mai stato neanche un occidentale (ricordiamo come è finita in Medio Oriente, vero?). Inoltre, aldilà delle nostre responsabilità, dentro questa storia ci sono tutti i grandi temi del nostro tempo. Da un lato un paese al galoppo verso le economie globalizzate occidentali e dall’altro il prezzo di questa corsa, la competizione impari con le grandi multinazionali (ricorda qualcosa lo sciopero dei lavoratori Amazon?), i diritti dei lavoratori, una transizione economico-sociale interna non indifferente.
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Le ripercussioni sull’Italia
L’India è un gigante coi piedi d’argilla costretto a fare i conti con le sue debolezze, con il riscaldamento globale e con la Cina. Un’economia che insomma rischia di incrinarsi, senza coniugare all’avanzamento tecnologico le basi sociali necessarie. Ci sono poi questioni etiche: la differenza tra effettivo progresso sociale e avanzamento tecnologico, il primato della politica sull’economia, le responsabilità dell’occidente. Un paese dilaniato all’interno da guerre di caste e religioni, le cui evoluzioni ci interessano, o meglio dovrebbero interessarci, da un punto di vista geopolitico (l’India è il secondo gigante dell’Asia e si sta spartendo l’Africa con la Cina) e da un punto di vista economico ( gran parte della frutta e verdura che mangiamo viene da lì). Eppure, non ce ne interessiamo. In poche parole, impareremo mai la lezione? La smetteremo di guardare oltre al nostro orticello? Oppure dobbiamo sempre aspettare che qualcuno ci bussi alla porta di casa per accorgerci della sua esistenza?
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