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Perché in Iran le donne protestano contro il regime?

Dopo l'uccisione della giovane Masha Amini da parte della polizia religiosa, si accendono le proteste contro la teocrazia. Siamo davanti a una nuova primavera iraniana?

10 minuti di lettura

Mahsa Amini è stata arrestata il 13 settembre a Teheran dalla polizia religiosa iraniana, un milizia volontaria fondata appena dopo la rivoluzione nel 1979 per ordine proprio dell’allora Ayatollah Khomeini con lo scopo di promuovere la virtù e prevenire il diffondersi del vizio. Dopo tre giorni, la salma della ragazza è stata riconsegnata ai famigliari in un ospedale della capitale dove era stata ricoverata a causa, molto probabilmente, delle percosse e violenze subite a seguito dell’arresto. Per giorni online sono circolate le foto di Mahsa in coma, attaccata ai macchinari per respirare. Poi alcuni hacker sembra abbiano violato i server dell’ospedale e pubblicato le tac del torace della ragazza con i polmoni pieni di sangue, prova inconfutabile del fatto che la tesi iniziale avanzata dalle istituzioni, ovvero che la ragazza avesse semplicemente avuto un malore, fosse solamente una scusa.

Le proteste delle donne in Iran

Nel frattempo le proteste in Iran hanno iniziato a diffondersi, dapprima nelle regioni settentrionali, quelle abitate a maggioranza da kurdi e da dove veniva la ragazza. Poi a macchia d’olio nelle maggiori città del paese. Per alcuni giorni le autorità hanno provato a negare l’evidenza, prima il presidente Ebrahim Raisi, che aveva ottenuto dagli USA uno speciale visto che gli permettesse di partecipare all’Assemblea Generale dell’Onu, ha sorvolato durante il suo discorso riguardo alle proteste in corso e la Guida Suprema, in un intervento televisivo il 21 settembre ha messo in guardia i giovani dal cadere nell’inganno delle potenze occidentali, anche qui senza citare direttamente l’accaduto. Ora invece sembra che le cose stiano sfuggendo di mano. In rete sono diventati virali i video che vedono giovani donne iraniane guidare le proteste, a volte gettando il velo tra le fiamme di un rogo improvvisato in una piazza od in un incrocio, in altri filmati invece si vedono gruppi di giovani, questa volta uomini, che assaltano macchine della polizia o sedi istituzionali. In altri ancora i manifesti con i volti della Guida Suprema e del presidente vengono strappati dai muri e dati alle fiamme al grido di «morte al dittatore!».

All’inizio il governo dell’Iran ha scelto di aspettare che l’onda calasse, ma di fronte al diffondersi delle proteste ha scelto di usare, di nuovo, la mano pesante. Ad oggi si contano oltre settanta morti in tutto il paese, secondo l’organizzazione non governativa Human Rights Watch. Non è semplice prevedere se siamo davanti ad una nuova primavera iraniana, anche se non sembra che per ora le manifestazioni possano assumere dimensioni tali da rovesciare il regime.

Primavera iraniana?

Quel che è certo è che sotto la cenere cova una rabbia sempre più trasversale, che abbraccia uomini, donne, giovani stanchi di vivere sotto il giogo di una dittatura religiosa nata da una rivoluzione borghese che sostituì allo Shah un clero oscurantista e altrettanto corrotto. Alcuni tra i media occidentali hanno parlato nuovamente di primavera iraniana, ma è difficile avere fiducia in un processo che non è mai realmente coinciso con le aspettative europee ed americane. Una primavera iraniana, verosimilmente, getterebbe il paese nel caos trascinandosi dietro una buona parte di quel Medio Oriente su cui il paese esercita una fortissima influenza. Le proteste sembrano mancare di una regia condivisa, e quello che ne potrebbe scaturire non necessariamente sarà migliore degli Ayatollah.   

L’Iran nel mondo

Non è la prima volta che il regime di Teheran si trova di fronte a proteste di questo tipo, ciclicamente infatti una parte della popolazione si solleva contro la leadership teocratica che governa il paese da oltre quarant’anni. Nel 2009, a seguito delle contestate elezioni presidenziali di quell’anno, a perdere la vita furono decine di giovani, e successivamente, soprattutto a causa delle difficili condizioni economiche in cui la Repubblica Islamica deve destreggiarsi a causa delle sanzioni statunitensi, non sono mai mancati moti a causa della povertà o del peggioramento delle condizioni sociali. L’Iran rappresenta però la raffigurazione plastica di come un regime sottoposto a sanzioni possa non solo non crollare dall’interno, ma al contrario inasprire le sue politiche di sicurezza. La leadership iraniana ha reagito all’isolamento da parte dell’occidente avvitandosi ancora di più su sé stesso, soprattutto a seguito della violazione da parte degli Stati Uniti del JCPOA, accordo raggiunto nel 2015 che prevedeva la garanzia che l’Iran non avrebbe sviluppato l’arma nucleare in cambio di un progressivo alleggerimento delle sanzioni che schiacciano il paese da quarant’anni.

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Ovviamente erano previsti stretti meccanismi di controllo, al quale la Repubblica Islamica si stava sottoponendo con successo, almeno fino all’uscita unilaterale degli USA nel 2018, probabilmente sotto spinta israeliana. Il risultato è che ora il paese potrebbe dotarsi di capacità nucleare nel giro di pochi mesi, nonostante i continui tentativi di sabotaggio israeliani, tra cui l’uccisione di diversi scienziati e direttori del programma. Anche l’uccisione del comandante dei Pasdaran e figura di spicco delle gerarchie iraniane, il generale Qasem Soleimani, avvenuto nel marzo del 2020 ha contribuito ad incrinare i rapporti tra il paese e l’occidente, contribuendo secondo molti alla vittoria nelle urne della frangia conservatrice alle elezioni dell’anno successivo.

Le proteste in Iran

Negli ultimi tre anni sono stati acquistati dalla Cina sistemi di sorveglianza di ultima generazione, utili al riconoscimento facciale e la gestione della rete internet nel paese è completamente sotto controllo governativo. Non è un caso che l’Iran fosse presente al recente vertice della SCO (Shanghai Cooperation Organization) a Samarcanda, nel tentativo di aggirare le sanzioni occidentali dopo il dialogo fallito. Nei giorni scorsi l’istrionico miliardario statunitense Elon Musk sembra abbia chiesto di poter aggirare le sanzioni per fornire ai cittadini l’accesso ad una rete internet alternativa a quella controllata dal governo, attraverso i suoi satelliti Starlink, permettendo così alle proteste di organizzarsi e coinvolgere il maggior numero di persone possibile. Si tratterebbe di un’operazione simile a quella che Musk ha subito proposto all’Ucraina all’inizio del conflitto, per evitare che la Russia monopolizzasse l’informazione e lasciasse la popolazione delle zone occupate al buio. L’Iran inoltre, per aggirare l’isolamento, ha stretto negli ultimi anni rapporti sempre più stretti anche con la Russia, alla quale sta fornendo batterie di droni impiegate nel conflitto ucraino.  

Le proteste in Iran fino ad ora

Le proteste più violente fino ad ora hanno avuto luogo nel Kurdistan iraniano, regione da sempre precaria per la leadership persiana a causa delle peculiarità religiose ed etniche che la contraddistinguono. Il fatto però che siano state coinvolte città sacre come Qom o Kish, che si trova nel sud del paese, è un campanello di allarme per il regime. Sotto la presidenza di Hassan Rouhani lo zelo delle autorità nel far rispettare le regole della morale islamica era notevolmente diminuito, per poi inasprirsi di nuovo con il cambio di leadership. Questo fatto in particolare segnala una spaccatura profonda nella società iraniana, intergenerazionale e tra le grandi città e le campagne.  Ora però, anche uomini vicini al clero chiedono un maggiore controllo del corpo di polizia che ha ucciso Mahsa Amini, che gode una particolare libertà di azione ed impunità. Le opposizioni ne chiedono l’abolizione e sono circolate in rete alcune foto di figlie, mogli e parenti di membri o uomini vicini al governo che indossano tacchi, magliette scollate oppure non portano il velo.

È una lotta, quella delle donne iraniane, che genera empatia e vicinanza in chi vede il coraggio di cui sono capaci, ma il futuro resta incerto. Appena ad est, oltre il confine afghano, una cortina nera è calata di nuovo sul futuro delle vecchie e nuove generazioni.

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Michele Corti

Nato a Lecco nel 1996, studente di Scienze Politiche. Amo la montagna in ogni sua veste, il vento in faccia in bicicletta, la musica e provo a destreggiarmi nella politica internazionale, cosa fortunatamente più semplice rispetto a quella italiana."

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