Il 13 settembre 2022, a Teheran, Mahsa Amini, 22 anni, è stata arrestata ed è morta in custodia della polizia religiosa per aver indossato in maniera scorretta il velo in un luogo pubblico. Un femminicidio di Stato, perpetrato dal regime islamista iraniano, che è diventato fin da subito motivo delle proteste delle donne iraniane nel 2022 dando vita a rivolte in tutto il paese.
«Zan Zendegi Azadi», «donna vita e libertà» in persiano, è diventato lo slogan della rivoluzione iraniana e della marcia per i diritti umani. Il nome di Mahsa Amini, in curdo Jina, è diventato il grido di aiuto di uomini, studenti, lavoratori e minoranze etniche che vivono nella Repubblica Islamica istituita nel 1979 a seguito della caduta della monarchia Pahlavi. Le proteste in corso tutt’oggi non rappresentano la prima grande marcia della storia recente iraniana. Infatti, nel 2009, vi fu la protesta per la vittoria elettorale di Ahmadinejad. In quell’occasione vi furono delle discrepanze tra il numero di elettori e le schede ricevute e nonostante ciò, la guida suprema Ali Khamenei, dichiarò veritiere le elezioni. Il giorno dopo le elezioni, il 13 giugno, il gruppo dei sostenitori di Mir Hosseini Mousavi, scese nelle piazze con lo slogan «where is my vote?». Successivamente, nel 2017, avvenne la richiesta di abolire l’obbligo del velo imposto dal 1979 identificandosi come prima organizzazione a sostegno della libertà delle donne.
L’origine della polizia morale
Tuttavia per comprendere bene i fatti delle proteste, non si può non fare un viaggio attraverso pene, delitti e diritto islamico, correlati intrinsecamente alla religione.
La vicenda, che si è costruita intorno all’uccisione della giovane, ha riportato sulla scena internazionale luci ed ombre della Repubblica Islamica. Quest’ultima ad ogni protesta ha svelato la sua vera anima esercitando una repressione violenta e dando risposte atroci. Un ruolo chiave in questa vicenda l’ha avuto la polizia morale, questo braccio esecutivo dello Stato supervisiona usi, costumi e gesta della comunità ed è incaricato di mantenere equilibrio ed ordine. La sua ragion d’essere nasce dalla Hisbah, «promuovere il bene e proibire il male» attraverso l’osservanza delle norme stabilite dall’ordine sociale e morale dell’Islam. La Hisbah non è un termine coranico ma esprime il principio cardine della teologia morale sharai’tica. Nell’Iran degli Ayat Allah la polizia morale controlla se i credenti rispettano tale precetto. All’interno della Hisbah troviamo Il dress-code sull’utilizzo del velo, la cui trasgressione è stata la ragione dell’arresto di Mahsa Amini. I manifestanti coinvolti nelle proteste invece vengono arrestati e alcuni condannati a morte principalmente per due ragioni: inimicizia contro Dio scontri violenti con le forze iraniane.
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Le norme del diritto penale islamico
Il diritto islamico è rivelato direttamente da Dio e non può prescindere dalla sfera religiosa. Il sistema giuridico islamico, in quanto sacro, deve essere inquadrato come un insieme di regole divine piuttosto che come frutto di un ragionamento umano. Quando si parla dello stato islamico si utilizza spesso il termine “teocrazia“, intendendo il potere politico interamente nelle mani di un’autorità religiosa. Più appropriato per identificare questo tipo di costituzione politica però è il termine “monocrazia”, dal momento che il potere è centralizzato in un’unica figura. Le fonti del diritto sono Corano, sunna, Ijma (consenso) e qiyas (analogia) che compongono la Shari’a ovvero il complesso dei doveri e comportamenti che un buon musulmano deve eseguire. Per quanto riguarda il sistema penale islamico dobbiamo sottolineare che non esiste un vero codice scritto, ma un insieme di tematiche trattate. Differentemente dal sistema occidentale, la suddivisione delle pene è operata in composizione mista, ossia tra la natura dell’atto e la discrezionalità del giudice. Le pene sono classificate in tre gruppi, pene hudud, pene jiniyat e ta’zir. Tra i crimini identificati da queste ci sono: rapporto sessuale illecito, furto, calunnia, assunzione di sostanze inebrianti, brigantaggio, ribellione, rapina, terrorismo (hiraba) ed apostasia. Le punizioni sono corporali, alcuni esempi sono fustigazione, amputazione o pena capitale. Le pene sono presenti nelle fonti e nelle loro interpretazioni che completano ciò che manca in una o nell’altra. Per il reato di omicidio esiste la diya, ossia il prezzo del sangue, il quale non prevede la morte a meno non ci fosse la intenzionalità nell’atto. La diya richiede un risarcimento da parte del colpevole alla famiglia della vittima. Quest’ultima può decidere come essere ripagata: se con soldi, con applicazione della legge del taglione o attraverso la condanna a morte per la teoria del contrappasso.
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Lo stato attuale dell’Iran
L’Iran applica la Shari’a e le sue interpretazioni sulle fonti attraverso l’attività della sua Guida Suprema, vicario di Dio in terra. Tra i reati più penalizzati ed interpretati del diritto islamico vi è la Hiraba che nello stato attuale iraniano rappresenta reato di opposizione politica, corruzione e disordine sociale. Le pene punitive sono esecuzione, crocifissione, amputazione ed esilio. Il reato di Hiraba è chiamato moharebeh ossia «corruzione degli uomini in terra» accusati di essere nemici di Dio. I manifestanti che hanno ricevuto la sentenza di morte fino ad oggi sono 11 e altri 100 saranno giudicati. Il reato di moharebeh e la diya sono i due principi utilizzati per le condanne. Ad ogni modo l’ayat allah Morteza Moghtadai ha espresso la sua indignazione di fronte alle numerose esecuzioni. Egli ha affermato che per il reato moharebeh non sempre è necessaria tanta brutalità. Alla sua dichiarazione ha risposto l’ayat allah Mohammadali Ayazi, dicendo che tale pena è utilizzata con forza nel caso in cui i manifestanti si difendano dalla polizia. Intanto l’ONU ha escluso il paese dalla Commissione delle Nazioni Unite per i diritti delle donne. Inoltre l’ONU, il 5 gennaio, ha criticato duramente le condanne imposte ai manifestanti, definendole «armi contro i cittadini».