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Refn e il cinema oltre la trama

9 minuti di lettura

Nasce a Copenaghen per poi trasferirsi a New York a 8 anni insieme alla madre fotografa e al padre regista, dove più tardi inizierà i suoi studi all’accademia d’arte drammatica con il sogno di diventare attore. Ma non è di un attore che stiamo parlando, bensì del regista Nicolas Winding Refn, insieme a Lars Von Trier come uno degli autori del cinema denese più conosciuti in circolazione, nel bene e nel male.

Di Refn e del suo cinema sono state dette tante cose e tante altre se ne possono dire, a partire dalla regia a tratti surrealista, che flirta con l’occhio di David Lynch per arrivare ultimamente ad una fotografia sempre più psichedelica, aggredita da una cornice di musica elettronica.

Refn
(fonte: rollingstone.it)

Pusher

Da una prima esperienza di cortometraggio (interpretato dallo stesso regista), visto per caso da un produttore sconosciuto, nasce il primo film di Refn nel 1996. Attori non professionisti, montaggio scarno, sfocature dovute ad una camera a mano più attenta a seguire i personaggi piuttosto che alla pulizia. Ed è un successo enorme: un film nuovo e moderno, con il giusto ritmo che entra in testa come una musica. E a proposito di musica, anche questa è utilizzata in un modo completamente nuovo.

Non c’è mai una vera colonna sonora: i suoni arrivano in maniera realistica, dalle canzoni che i personaggi stanno ascoltando in radio in quel momento, dagli altoparlanti, insomma dalla realtà (del film, s’intende). E il debutto di Refn è un gangster movie interessante anche dal punto di vista della storia: a tratti psicologico, mostra un lato umano della criminalità organizzata che per film di questo genere è nuovo e particolare.

Bleeder

Il secondo lavoro del regista danese non è solo un film godibile ma può forse valere come una sua dichiarazione d’amore per il cinema, tant’è vero che contiene un certo numero di citazioni dei film con cui è cresciuto. Sembra quasi che Refn qui voglia presentarsi, mettere a nudo sé stesso, mostrarci chi è e soprattutto cosa gli piace in un film. Una pellicola senza troppe pretese, forse la più debole di tutta la filmografia, ma comunque piacevole e interessante.

Fear X

Film additato come forse il peggiore del regista, con John Turturro come protagonista, racconta la storia di un guardiano di notte. Dopo che la moglie è stata uccisa uccisa proprio nel centro commerciale dove lavora, Harry passa le sue giornate a ricontrollare ossessivamente le registrazioni delle telecamere a circuito chiuso, per cercare di capire com’è andata.

Quella che sembrerebbe a tutti gli effetti una storia di vendetta è in realtà una storia di umanità: Harry non è un assassino, non vuole vendicarsi, cerca soltanto di capire perché le cose sono andate in quel modo, come chiunque di noi farebbe al suo posto. Riprese al limite della staticità ed una fotografia che inizia ad essere fenomenale, per un film che troppo spesso viene dimenticato.

Refn
(fonte: worldboxingnews.com)

Bronson

Il primo grande culto di Refn arriva nel 2008, un one man stage con Tom Hardy come protagonista assoluto. Il film reinterpreta la storia di Micael Gordon Peterson, conosciuto come il più violento criminale britannico vivente. Ci troviamo faccia a faccia con un uomo che ha fatto della violenza la sua missione di vita, senza motivi o giustificazioni. E questa violenza diventa arte fine a sé stessa, senza motivi né giustificazioni che si possano addurre.

La cura dei dettagli è maniacale (non solo per luci, la fotografia e le atmosfere synth anni 80, ma anche per quanto riguarda il vestiario dei personaggi, che sanno mostrarsi già prima di parlare). Con Bronson, Refn strizza l’occhio al protagonista di Arancia Meccanica e capovolge la sua stessa realtà, passando dall’umanizzare i personaggi del suo cinema al rendere cinema un essere umano.

Valhalla rising

Successo di critica per questa sofisticata cronaca storica sul mito dei vichinghi, in cui già si legge l’inizio di un’evoluzione nel cinema di Refn. La storia del passaggio di un uomo da schiavo a guerriero in un mondo ipnotico, senza tempo.

Refn

Drive

La città diventa il cuore pulsante del film in questo tributo all’estetica degli anni ‘80. In un’atmosfera di palazzi sfavillanti, luci psichedeliche e capolavori musicali della synth wave, l’auto del protagonista diventa l’equivalente della macchina da presa per il regista: uno strumento per sviluppare una storia, tra i colori della metropoli.

Solo Dio perdona

Forse il primo capolavoro del regista Danese, sicuramente un’opera tra le più interessanti di questi anni. Un uomo che vuole (o meglio, deve) vendicare il proprio fratello, contro un poliziotto che gioca con la morale e la usa a suo comodo. La pellicola è stata più volte criticata perché eccessivamente ermetica, ma forse è proprio questo il vero significato del film: la violenza è violenza, è un linguaggio universale e come tale non ha bisogno di essere diluita con le parole. E dell’arte di trasformare la violenza in spettacolo, Refn si è dimostrato più volte maestro.

Refn
(fonte: www.indipendent.co.uk)

The Neon Demon

L’ultima perla partorita da Refn è senza dubbio il miglior horror (se non il miglior film) del 2016. Cosa sia questo film è difficile da dire, ma senza dubbio si può descrivere con una parola: vuoto. Vuoto di dialoghi, vuoto di comunicazione, vuoto di riflessioni – e non necessariamente si tratta di un difetto, dal momento che il vuoto in questo caso è metacomunicativo. Un film che è pura estetica in un mondo (quello del film, comunque non troppo lontano dal nostro) che è, esso stesso, pura estetica, dove la bellezza è l’unica cosa che conta. Certo, un tema trito e ritrito, ma che importa se è reso meglio che nel 90% dei casi.

Un cinema che non è trama

Nicolas Winding Refn, con già più di vent’anni di carriera alle spalle, ha avuto tempo modo di dividere ampiamente la critica e far parlare di sé. Ma soprattutto, tra una pellicola e l’altra sembra fare al suo pubblico sempre la stessa domanda: la trama di un film è davvero la cosa più importante?

Basta guardare la maestria con cui Refn gestisce la musica, i colori, i giochi di specchi, le angolature per capire che, a prescindere dalla risposta che possiamo dare, il suo cinema è ben altro. E per ricordarci che l’arte è tale non sempre perché in sé nasconde un messaggio, ma perché quel messaggio si genera nel momento dell’incontro col pubblico.

 

Marta Mantero

Sulla carta c'è una ventitreenne laureata in scienze delle relazioni internazionali.
Sulla pelle ci sono i libri, la musica, il buon cinema e il mare mosso.
Nella pancia c'è il teatro.

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