Moda e corpo sono un connubio che permea le basi della società da tempo immemore. In un mondo in cui l’intrattenimento è il grande maestro burattinaio, in cui ogni cosa serve il nobilissimo scopo di riempire quel quarto d’ora di tempo “libero” che ci concediamo, è naturale che in un ambiente fatto di riflettori per i riflettori questi ultimi prima o poi facciano luce su ciò a cui gira tutto intorno: il corpo. Il corpo è strumento di intrattenimento per antonomasia, in quanto fulcro della vita e della percezione esterna e interna che noi abbiamo di essa. Come tutto l’intrattenimento, anche il corpo e il modo in cui viviamo in esso è cambiato negli anni, e con sé ha portato l’immagine e lo specchio di come la società di un determinato tempo decide di presentarsi: la moda.
Nel suo libro The Beauty Myth, Naomi Wolf analizza la correlazione che c’è stata nel corso della Storia moderna fra la stretta dei beauty standards intorno al collo delle donne e l’ampliamento dei diritti delle stesse: in sostanza, le norme imposte dai costumi e dall’immagine dovevano limitare la nuova potenza femminile, ancora meglio se queste norme erano modellate sull’idea di apparire il più “debole” e “indifesa” possibile. Dunque, la relazione fra emancipazione femminile e pressione estetica è sia causa-effetto che effetto-causa. Ma se ora siamo così consapevoli dell’oppressione che il “mito della bellezza” esercita su donne e persone AFAB (Assigned Female At Birth, assegnate femmine alla nascita – il termine si riferisce sia a donne che a uomini trans e persone non-binarie con genitali femminili), se abbiamo ormai capito quale occlusione esso comporti alla libertà, come mai non smette mai di perseguitarci?
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Il ritorno dell’heroin chic
Per tutti coloro che si interessano di moda (o di intrattenimento in generale) non è un mistero che stiamo vivendo nel mezzo di un’ondata di nostalgia per l’inizio degli anni 2000, influenza evidente sia nelle tendenze y2k (ispirate all’inizio degli anni 2000) che nella rinnovata popolarità di serie del periodo come Skins o che ammiccano a essa come Euphoria.
Questo ritorno dell’heroin chic porta inevitabilmente con sé uno tsunami di abitudini sociali fin troppo normalizzate all’epoca, prima fra tutte l’ossessione con la linea e il perdere peso (senza contare la romanticizzazione delle droghe, su cui si potrebbe scrivere un intero articolo a parte). Innumerevoli celebrità prima conosciute per non essere necessariamente la personificazione di uno standard corporeo irraggiungibile hanno perso peso in maniera significativa. Sulle passerelle, il ritorno dell’heroin chic, delle grandi supermodelle della fine degli anni ‘90 ha confermato in maniera più o meno velata la tendenza generale dei designer d’alta marca a presentare modelli sempre più magri, con magari una o poche più (e comunque sempre donne, cisgender, quindi che si identificano nel genere assegnato alla nascita) modelle plus-size. Appare dunque difficile credere che queste ultime non siano state giostrate nella maniera corretta per non far apparire come se gli sforzi e le lotte del movimento della body positivity negli ultimi anni fossero completamente inutili.
Tutto ciò che viene proposto agli adolescenti, in particolare post-pandemia, viene assorbito dal nostro sistema assetato di content – e infatti, i disordini alimentari non scampano alla diffusione a macchia d’olio che ogni cosa che ritorna su Internet provoca.
In un articolo del Febbraio del 2021 l’American Society for Nutrition afferma che circa 24 milioni di persone soffrono di un disturbo alimentare nei soli Stati Uniti e secondo il King’s College of London le diagnosi nel Regno Unito sono aumentate del 15% dal 2000, specialmente di anoressia e bulimia.
Potremmo addirittura definire la situazione attuale più grave di quella di inizio millennio: venendo da una pandemia mondiale, un adolescente su quattro rientra nei sintomi per una depressione clinica elevata. Il declino della salute mentale dei ragazzi fornisce terreno fertile a ogni tipo di disturbo alimentare.
A questo si può aggiungere, specialmente negli Stati Uniti, un sentimento generale di perdita del controllo del proprio corpo, alimentato dalle legislazioni contro le persone transgender (e in generale volte al controllo dei corpi con utero, come le leggi sull’aborto).
Anche in Italia stiamo vivendo un momento di stretta al collo, vista la prima approvazione della Camera all’introduzione del reato universale per la maternità surrogata e l’impugnazione degli atti di nascita di 33 bambini nati da coppie di due madri da parte della Procura di Padova (questi sono solo due esempi per portare alla luce il clima generale che inneggia ad un ritorno dei “valori tradizionali”)
Non è strano, dunque, che tutte le persone interessate da queste legislazioni possano sentirsi private della giurisdizione sopra il proprio corpo, e che cerchino di riguadagnarla con disturbi alimentari che sono proprio basati sull’idea di controllo e ordine.
Ma è necessario ricordare che, per quanto il ritorno di massa di una patologia psichiatrica, di una “anoressia collettiva”, sia un movimento dalla portata globale esso si riflette nel modo più profondo e significativo sulle vite del singolo individuo, specialmente se giovane e senza supporto. Lo stigma intorno al trattamento dei DCA (disturbi del comportamento alimentare, termine ombrello con cui si identificano diversi disturbi, tra cui anoressia, bulimia e binge-eating) è ancora ben radicato nel pensiero comune, accompagnato da decine di stereotipi su chi ne soffre. Per esempio, è pensiero comune che siano patologie strettamente legate al mondo femminile, e per quanto sia vero che la grande maggioranza di chi ne soffre è proprio donna – i motivi di questo sono approfonditi nel già citato The Beauty Myth per quanto si sia creata una sorta di avatar standard della ragazza anoressica, la larga gettata della loro diffusione fa sì che questi disturbi interessino anche altri generi e soggettività.
Per provare questo punto, riportiamo le testimonianze di quattro ragazzi la cui esperienza con i DCA non potrebbe essere più diversa. È essenziale sapere se questi sentimenti sul ritorno dei DCA come trend, specialmente sulle passerelle, sono condivisi e lampanti agli occhi di chi ha sofferto per via dello standard mediatico. Sottolineiamo il genere degli intervistati solo per dare un quadro più completo della relazione fra questo e il disturbo, tra l’identità e la società.
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Sono raccolte nelle prossime righe alcune risposte provenienti da interviste svolte tra marzo e aprile 2023 dall’autore a quattro ragazz* di età compresa tra i 14 e i 16 anni all’epoca dell’intervista. Per tutelare la loro privacy, verranno riferiti come A., D., T., e R.
A.– Sedici anni, ragazzo transgender
T.– Quattordici anni, ragazzo cisgender
D.– Quindici anni, ragazza cisgender
R.– Sedici anni, ragazz* non-binary
Innanzitutto, era importante stabilire di quale tipo di disturbo alimentare soffrissero gli intervistati anche se la maggioranza di loro non aveva ricevuto diagnosi (tranne per R.) ed è quindi difficile stabilire con esattezza che termine utilizzare per un insieme di abitudini alimentari poco sane, perciò si farà riferimento alle loro stesse parole. Ad ogni modo, A. ha sofferto di anoressia (nonostante non fosse propriamente diagnosticato, ha ricevuto dei trattamenti in quanto manifestazione del suo disturbo dell’umore). Lui racconta del suo DCA in quanto risposta ad un rifiuto dopo il suo coming out come uomo transgender. Quando gli è stato chiesto se fosse legato anche alla sua disforia di genere, mi ha risposto che in parte lo era ma principalmente era «un modo per sopportare queste emozioni».
T. invece racconta di un percorso meno lineare: «Quando ero piccolo mangiavo tanto perché stavo male (binge-eating, ndr), poi per un periodo non mangiavo, e poi quando ho ripreso quello che mangiavo lo vomitavo (bulimia, ndr)». Dice inoltre di non averne mai parlato coi suoi genitori, ma con la sua psicologa sì. D. ha sofferto di bulimia; anche a lei non è stata diagnosticata. Mette luce su un aspetto importante: la sua esperienza nel mondo del balletto. «Ho parlato con delle dietiste mentre facevo danza classica; mi dissero che avevo perso troppo peso». A R., come abbiamo detto, alle medie sono stati diagnosticati binge-eating e bulimia.
Se vogliamo andare a ricercare le cause contribuenti allo sviluppo dei DCA degli intervistati, non possiamo escludere i social. I nomi di TikTok, Tumblr e Instagram sono venuti fuori spesso: A. racconta della sua esperienza su Tumblr come quella di una comunità, “quella cosa non detta” che tiene unite persone che soffrono. Inoltre, ha sottolineato come un ritorno della normalizzazione dei DCA sia rischioso specialmente su Tiktok: «E’ una piattaforma che annienta qualsiasi barriera – bisogna rendersi conto che, come persona malata, devi essere consapevole del male che puoi fare agli altri. È ancora più pericoloso perché su TikTok nulla viene promosso in maniera diretta». T. invece ci parla di Instagram – «Io sono fissatissimo col mondo della palestra […]. Sì, Instagram mi ha fatto proprio star male per questa cosa. Io guardavo la gente su Instagram e influiva tanto sul mio stato mentale».
Raccontano anche di venire condizionati dall’ambiente circostante; per D. e T. in ambito familiare, per R. erano persone come compagne di classe che facevano body-shaming e giudicavano per l’orientamento sessuale o di genere. D. collega la sua esperienza anche al mondo della danza classica, di cui è stata parte per tanti anni. Ma comunque rimane il leitmotif del social come strumento di ispirazione o supporto di abitudini malate: tutti gli intervistati hanno riscontrato un aumento delle tendenze di tipo anoressico – in senso lato di “promozione della magrezza” – sulle piattaforme digitali. Come mai? Perché proprio ora?
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Per quanto ognuno possa essere scollegato dalla società, tutti avvertiamo le sensazioni globali, una sorta di “senso sociale”. Ho chiesto agli intervistati se avvertissero un senso generale di perdita del controllo sul tuo corpo – alimentato dalle legislazioni contro le persone transgender e la messa in discussione di diritti che sembravano già conquistati, e come questo abbia influenzato i loro disturbi alimentari.
Assolutamente, soprattutto perché io penso che non si parli abbastanza dell’influenza che ha sulle persone transgender. Noi ricopriamo una grande percentuale di persone con disturbi di questo tipo. Perché non se ne parla? Perché ovviamente noi viviamo in una società patriarcale e misogina e questi disturbi sono visti come cose da “donne” […] per le donne è così normalizzato. Ovviamente c’è molto il tabù delle persone transgender: non si vuole sottolineare le sofferenze delle persone transgender perché si vuole dare l’idea che queste vogliano imporre la propria idea sugli altri. Vivendo in una società che non riconosce noi come persone, di certo le nostre problematiche non sono ascoltate. Gli specialisti non sono abituati a trattare pazienti che non siano donne bianche estremamente magre.
«Io mi sento male quando vedo che tolgono sta roba [leggi sull’aborto negli Stati Uniti, nda]» aggiunge T. «Per l’ambiente in cui mi ritrovo si, lo avverto, ma non necessariamente per le news». «Io sento che non sono io in controllo del mio corpo, ma è la società» dice D.
Io sul mio corpo sono molto influenzabile, seguendo le mode, guardando i film, le sfilate, ma anche semplicemente la gente che parla, o la situazione qua in Italia; io non mi sento in controllo del mio corpo. È in mano di qualcun altro.
E infine R. conclude:
Nella vita reale vedo molte persone che basano tutto sul loro aspetto fisico e la cosa preoccupante è che non lo tengono soltanto per loro stesse, ma cercano che le persone intorno a loro facciano lo stesso. […] Nel mondo dei social, in piattaforme come TikTok, vedo un aumento di persone che sponsorizzano anche pasti che non possono essere considerati tali, e nel mondo online si sa che da quando è nata la pornografia sono veramente aumentati gli standard di bellezza; le persone, essendo molto a contatto con contenuti pornografici, pensano che questi fisici da copertina siano la realtà, anche se non sono naturali.
Sono poi arrivato al punto fondamentale dell’intervista: la relazione fra DCA e moda. D., T., e R. si dichiarano interessati di moda e sfilate – T. lavora anche come modello; mentre A. non ne è particolarmente seguace ma è esposto agli eventi relativi con una vasta risposta mediatica, specialmente se si parla di salute mentale e DCA. Quando posti davanti alla domanda diretta: «Secondo te è tornata l’heroin chic?» gli intervistati si sono divisi in due fazioni. Per A., è tornata l’heroin chic e, secondo lui, ci sono due punti di vista: quello di una persona malata e quello di una persona sana. La persona malata vede nel ritorno dell’heroin chic (detta anche cocaine fashion, nome in ugual modo ispirato dal fisico scheletrico che queste droghe danno a chi ne fa uso) il riflesso pubblico delle sue tendenze, che non sono più così solo un segreto, una cosa segregata alla sua comunità online, ma qualcosa di normalizzato e anche quasi incoraggiato dall’industria della moda.
Io devo dire che ho notato soprattutto nell’ultimo anno e mezzo un ritorno dell’heroin chic – perché comunque col tempo di body type di tendenza cambiano e quindi nel 2020 per esempio avevamo visto il body type con la vita stretta, i fianchi larghi e il seno grande, il fisico curvy, che è comunque un fisico particolare che non possono avere tutti. […] Il tipo di corpo che va di moda per le donne è molto alimentato dal desiderio degli uomini. Sta tornando di moda e ho notato una certa indifferenza da parte delle persone.
Quel riferimento al 2020 non è affatto infondato, in quanto tutti gli intervistati ricordano un periodo in cui sembrava che il movimento della body positivity stesse riscontrando dei successi: per quanto si ricercasse comunque un body type specifico, si era aperta una breccia nel muro della magrezza come unico standard possibile. Ma, sentendo l’altra fazione di T., D. e R., in realtà questa finestra idilliaca non è stata così decisiva. Infatti, tutti e tre sostengono che l’heroin chic non se ne sia mai veramente andata. T., lavorando come modello, sottolinea che per questi è quasi doveroso avere problemi alimentari: «Tutti sanno che nella moda lo standard è uno». D. è cinica riguardo alle scelte di casting dei brand famosi alle loro sfilate. «Non è che se mi metti una o due ragazze curvy in una sfilata da quarantotto persone è inclusivo, secondo me. È meglio di niente, ma volete solo fare bella figura per avere una bella parola sulla vostra immagine». Anche R. condivide il sentimento generale: l’heroin chic non ha mai veramente mai abbandonato i media, e crede che non sparirà a breve.
Nonostante i diversi punti di vista che sono stati esposti durante il corso di queste interviste, è difficile capire esattamente perché l’heroin chic sia ancora una volta tornato alla popolarità – uscendo dal suo stato base di fondamenta dell’intrattenimento moderno. Si possono fare tante ipotesi sulle motivazioni, dal boom dell’industria del fitness a molto più semplicemente la natura vulnerabile dei ragazzi, esposti a materiale deleterio per la loro salute mentale. Difatti come abbiamo visto molti adolescenti si sentono in balia della società che, secondo uno standard che non dipende da loro, discerne e seleziona le caratteristiche più appetibili, come una sorta di grottesco Hunger Games; e a questo si aggiunge il sentimento generale di scarso controllo sul futuro. Fin da piccoli alla nostra generazione è stato insegnato che avremo solo pochi decenni di pace se non agiamo per il clima e come meccanismo di difesa si è sviluppata una sorta di ansia endogena, che potrebbe manifestarsi anche nel disperato tentativo di dare un controllo alla propria vita – perché alla fine è questo che fanno i DCA, dare un contorto senso di conforto nella gabbia in cui ti metti da solo.
Dopo tutte queste riflessioni, sembra impossibile vedere un mondo in cui trend distruttivi come quello della l’heroin chic non siano all’ordine del giorno.
Un barlume di speranza arriva da D., che descrive come l’ambiente della scuola che frequenta (un liceo artistico) l’abbia aiutata a sentirsi più a suo agio con il suo corpo:
L’Artistico mi ha aiutato tanto, vedo queste ragazze che avevano un body type simile al mio o curvy che erano super a loro agio a mostrare il loro corpo e io mi dicevo ‘Oh mio Dio. Voglio essere come loro. Voglio avere la loro confidence a mettere top corti e pantaloni a vita bassa.’ Perché è da quando avevo undici anni che non mi metto un top. Non ci riesco. […] Lì… non gliene frega un cazzo a nessuno, è questo il punto, che mi ha fatto ragionare un po’ di più su questa cosa. Non gliene frega a nessuno se sei un po’ più in carne.
-D
La risposta potrebbe trovarsi proprio in questo piccolo esempio, la strada da prendere per creare un ambiente accogliente non solo limitato a queste piccole oasi. I passi che si stanno facendo, seppur sempre confrontati con lo strato base dell’immagine magra da cui facciamo così tanta fatica a scollarci, sono vitali. Sono essenziali per andare sempre di più verso un mondo in cui ci si può sentire a proprio agio nel proprio corpo anche fuori dalla bolla di un luogo che ha creato un’atmosfera senza giudizio.
Parlare, informare ed educare, creare il pensiero critico, sono sviluppi cruciali per la prevenzione dei disturbi alimentari. Specialmente se veniamo costantemente bombardati di content che li promuovono più o meno direttamente. Cambiare, o perlomeno, rendersi conto di avere un mindset “malato” riguardo al proprio corpo o quello degli altri è estremamente difficile e sicuramente non incentivato da quei media dove abbiamo visto che le tendenze anoressiche regnano indiscusse, anche se nell’ombra. Nel caso specifico della moda è molto complesso bilanciare la passione per la disciplina artistica con l’impatto negativo che può avere sulla salute psico-fisica. La linea che ci separa dai contenuti che consumiamo è sempre più sottile; e se l’uomo è quel che mangia, è anche quello che consuma.
Emilio Nunziatini
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