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Antigone

Antigone sofoclea: l’eterno dilemma morale tra legge divina e legge umana

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9 minuti di lettura

È il 442 a.C. quando, ad Atene, il tragediografo Sofocle partecipa e conquista la vittoria alle Grandi Dionisie con la sua Antigone.

La storia di Antigone

Antigone è la pietosa figlia di Edipo, re di Tebe, e sorella di Eteocle e Polinice, entrambi morti, dopo essersi uccisi reciprocamente, nella guerra che aveva visto contrapposte Argo e Tebe (la cosiddetta Guerra dei Sette). Antigone decide e dà la giusta sepoltura a entrambi i fratelli, compreso Polinice, che aveva combattuto contro la sua patria, spargendo sul cadavere una manciata di polvere, gesto bastevole ad assolvere l’obbligo religioso. La ragazza si oppone, così, alla volontà del nuovo re, lo zio Creonte, espressa mediante un editto che vieta di seppellire i nemici.

«Non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte ed incrollabili degli dei. Infatti, queste non sono di oggi o di ieri, ma sempre vivono, e nessuno sa da quando apparvero».

Antigone si appella invano alle «non scritte leggi degli dei», che reclamano l’uguaglianza di tutti gli uomini al cospetto di Dite.

Antigone
Antigone di fronte a Creonte, vaso attico a figure rosse (ca. 400 a.C.).

Una volta scoperta, la giovane viene condannata dal re a vivere il resto dei suoi giorni imprigionata in una grotta. In seguito alle profezie dell’indovino Tiresia e alle suppliche del coro, Creonte sceglie di liberarla, ma è ormai troppo tardi: Antigone si è impiccata. Questo atto estremo conduce al suicidio anche Emone, figlio di Creonte e promesso sposo di Antigone, e la madre Euridice, lasciando Creonte da solo.

I conflitti dell’Atene del V secolo

L’Antigone mette in scena le problematiche, le difficoltà e le esigenze proprie del periodo in cui venne rappresentata: l’Atene del V secolo a.C., quella dei sofisti, quella dove solo gli uomini liberi partecipavano attivamente alla vita democratica della polis, escludendo donne e schiavi. Sofocle illustra in questa tragedia l’eterno e sempre attuale conflitto tra autorità e potere, in termini contemporanei si parla del problema della legittimità del Diritto positivo. Il contrasto tra Antigone e Creonte si riferisce, almeno in parte, alla disputa tra leggi divine e leggi umane. Le prime (àgrapta nomina) fanno parte di un corpus di leggi consuetudinario, non scritto, ritenuto di origine divina, prerogativa del genos, e sono difese da Antigone; Creonte, invece, si affida al nomos, ovvero alle leggi della polis. Il punto di forza del ragionamento di Antigone si fonda sul sostenere che un decreto umano (il nomos creonteo) non possa impedire di far rispettare una legge divina. Al contrario, il divieto di Creonte è l’espressione di una volontà tirannica, basata sul principio della “legge del sovrano”: egli, infatti, osa porre tali leggi al di sopra dell’umano e del divino. Creonte appare, quindi, come un despota chiuso nelle sue idee, geloso della propria immagine e timoroso di apparire debole di fronte ad una donna. Solo alla fine, a tragedia avvenuta, Creonte riconosce i suoi errori, ma tale ammissione non corrisponde all’avvenuta evoluzione del personaggio, bensì solo ad un riconoscimento della catastrofe cui è stato condotto dal proprio comportamento.

Antigone
Frederic Leighton, Antigone (1882).
Olio su tela, 49,5 x 60,3 cm.
Collezione privata.

In una società come quella dell’antica Grecia in cui la politica è appannaggio esclusivamente maschile, il ruolo dissidente della giovane Antigone si carica di molteplici significati, che gli consentono di restare un esempio sorprendente di complessità, ricchezza drammaturgica e attualità. La ribellione di Antigone non riguarda infatti soltanto la sottomissione al nomos del re, ma anche il rispetto delle convenzioni sociali, che vedevano la donna come sempre sottomessa e rispettosa della volontà maschile, come testimoniano le parole della sorella Ismene:

«Bisogna riflettere su questo, e cioè che siamo nate donne così da non poter lottare contro gli uomini». (vv. 61-62)

«Obbedirò a chi comanda. Non ha senso fare cose troppo grandi». (vv. 66-67)

Creonte trova intollerabile l’opposizione di Antigone, non solo perché contrasta con il suo editto, ma anche, e soprattutto, perché a farlo è una donna. In questo senso, le azioni di Antigone potrebbero anche essere considerate un atto di hybris. Ma, nel suo ribellarsi, Antigone risulta una figura meno dirompente di altre donne tragiche, come Clitemnestra o Medea, poiché la sua ribellione è “semplicemente” volta a tutelare i propri affetti e non a scardinare le leggi su cui si fonda la polis, anche se una cosa finirà per implicare l’altra.

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Un’altra opposizione evidente nella tragedia è quella tra la vita e la morte. Per quanto antitetici, entrambi i personaggi desiderano la morte: Antigone fino in fondo, suicidandosi, e Creonte bramandola, dopo essersi reso conto di aver sbagliato. Il dibattito tra Legge e Natura, nomos e physis, è sempre attuale e costituisce le fondamenta della Bioetica e della Biopolitica, ed è in ambiti del genere che possiamo incontrare chi ha voluto (forzatamente -ndr.-) vedere in Carola Rackete una novella Antigone.

Tutte queste opposizioni binarie (genos/individuo, stato/cittadino, leggi divine/leggi umane, donna/uomo, vita/morte) danno origine all’enigma tragico, ovvero a quella questione strutturale ruotante attorno al double bind che attanaglia e caratterizza i personaggi delle tragedie greche.

Le interpretazioni

Antigone si è più volte prestata a letture in chiave politica, come quella sperimentata dal filosofo idealista Hegel, basata sul contrasto tra Stato e famiglia, due entità che obbediscono a forme di leggi molto differenti. Hegel, nell’Estetica, dà, però, un valore maggiore alla legge di stato in quanto è più evoluta rispetto alla più antica e meno sviluppata istituzione familiare.

Lo psicanalista francese Jacques Lacan, riprendendo la lettura dell’Antigone fatta da Hegel, legge la tragedia di Sofocle non come la contrapposizione dei due ambiti, bensì come un conflitto, interno al desiderio dei personaggi stessi, che tende al «giusto» ma che conduce inevitabilmente al «tragico»: i personaggi della tragedia sembrano dominare la macchina giuridica che, invece, finisce poi per travolgerli.

Al di là di tutte queste analisi, Sofocle ci offre l’opportunità di riflettere sulle nostre modalità decisionali e sulle conseguenze, anche irreparabili, che potrebbero derivare dall’incapacità di ascolto, dalla dismisura, dalla banalizzazione, dalle visioni estremiste che non si aprono al confronto e dall’applicazione rigida di princìpi.

Penso sia questo l’importantissimo monito della tragedia sofoclea: la realizzabilità della saggezza.

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Federica Funaro

Laureata in Lettere classiche, bibliofila, "faccio cose (...) vedo gente".