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Sotto la Biglietteria Ovest:
Franco Arminio
si racconta tra la folla

12 minuti di lettura

Nella mente c’è un posto adatto. Un caffè letterario o una cioccolateria. Ma quando è il momento giusto ce ne si dimentica.

Eccolo. Riconoscibilissimo, sciarpa e viso da poesia. In mezzo alla folla milanese delle 10 in punto. Franco Arminio è lì in mezzo con le sue valigie, tra partenze e arrivi, tacchi alti, valigette e ritardi. Due ragazzi promuovono un ferro da stiro/astronave ballando come vere massaie felici. Li guarda sorridendo.

«Un paesologo lo riconosci».

Franco Arminio, foto Livio Arminio
Franco Arminio, foto Livio Arminio

È mercoledì mattina, l’alba si è nascosta bene dietro uno scudo di nuvole, ha già piovuto e ha già smesso. Il posto adatto, sotto la biglietteria ovest, diventa un comodo sedile della Stazione Centrale di Milano. Parlare di paesologia in una città è come cercare un ago in un pagliaio. È questo il primo pensiero.

Poi le parole iniziano a scorrere. Un docente, geografo e viaggiatore Alfio Sironi e una giovane laureanda in geografia attirano la sua attenzione. Inizia lui a farci un’intervista, è interessato e ci sprona da subito a scrivere, sempre.

L’abbandono dei luoghi diventa “apparente” o forse “appartenente” solo alla razza umana. Un sentimento puramente umano verso ciò che ha costruito nel tempo. Una sorta di morte provvisoria, transitoria.

«Magari un paese muore, per noi. Ma non muore per una lucertola».

Parlare di paesologia diventa una forma di accortezza ai dettagli, alle vocali di una singola parola. Attenzione, per un luogo. È staccarsi dai confini imposti dalle discipline per guardare il mondo. Per attraversarlo, come un paese. È fare poesia, ballare, fare l’amore, guardare l’alba. Usare la poesia come arte del taglio e cucito. La paesologia è prima di tutto legata al corpo. Sensazione e commozione.

Raccontandoci il suo camminare tra la polvere, tra gioia di vivere e desolazione, ci parla dei suoi figli ci racconta dell’appena passata esperienza del Festival La Luna e i Calanchi, ci racconta di quanta gente, di cui moltissimi giovani, accorsi: partigiani della felicità in totale sintonia con i luoghi.

«La luna e i calan­chi è un gio­ioso fune­rale, pro­viamo a fare il fune­rale a una salma che pos­siamo chia­mare modernità. La gioia di un fune­rale liberatorio».

In questo che ruolo ha il racconto?

Il racconto va contro l’astrazione, è emozione del nero sul bianco. È importante che le persone scrivano dei propri luoghi per produrne un segno decifrabile.

E in politica? Che ruolo ha la poesia?

Poesia dovrebbe essere politica come la politica dovrebbe essere poesia. Un connubio tra lo sguardo delle regole con le regole dello sguardo. Il territorio si governa da dentro e da fuori, ogni territorio ha il suo modo. La faccia della politica è stanca. Una specie di schiuma grigia. Per questo abbiamo bisogno di più emozioni, di cose più vere.

Intanto il pendolo pende verso la Montagna, se prima tutti scappavano da Lei ci sarà un ritorno e si andrà al di là delle politiche. Tornerà l’arcaico, il mito. Tornerà la terra e l’Italia insieme a lei.

La bozza strategica per la Montagna Materana vuole questo, unire poesia e politica per tornare a un rapporto vivo con la Terra.

Quando si parla di scuola cosa si vede?

Si vedono professori grigi come la politica, assorbiti. Trovare l’eccezione è prezioso. Per me la scuola dovrebbe essere un corso di vita, come coltivare un’ossessione, un fiore, una lettera, un bambino e poi un ragazzo.

Lettera ai giovani

«Cari ragazzi,

abitate da poco una terra antica, dipinta con le tibie di albe greche, col sangue di chi è morto in Russia, in Albania.
Avete dentro il sangue il freddo delle navi che andavano in america, le grigie mattine svizzere dentro le baracche.
Prima il mondo filava le sue ore lentamente e ogni scena era per tanti, tutti insieme nel pochissimo bene che c’era e nel male che aveva il suo nido sotto le coppole e le mantelle nere.
Era la terra dei cafoni e dei galantuomini, era il sud dell’osso, era un uovo, un pugno di farina, un pezzo di lardo.
Ora è una scena dissanguata, ora ognuno è fabbro della sua solitudine e per stare in compagnia si è costretti a bere, a divagare nel nulla, a tenersi lontani dal cuore.
è uno stare che non contesta niente, ma è senza pace, senza convinzione.
Ora non vi può convincere nessuno. Dovete camminare nel mistero di questa epoca frivola e dannata, in questa terra che muore e che guarisce, dovete stare nelle crepe che si sono aperte tra una strada e l’altra, tra una faccia e l’altra, tra una mano e l’altra.
Tutto è spaccato, squarciato, separato. Sentiamo l’indifferenza degli altri e l’inimicizia di noi stessi.
È una scena che non si muta in un solo giorno, ma è importante sollevare lo sguardo, allungarlo: la rivoluzione del guardare.
Uscite, contestate il vomito invecchiato su una mattonella a cui si è ridotta la politica. Contestate con durezza i ladri del vostro futuro: sono qui e a Milano e a Francoforte, guardateli bene e fategli sentire il vostro disprezzo. Siate dolci con i deboli, feroci coi potenti.
Uscite e ammirate i vostri paesaggi, prendetevi le albe, non solo il far tardi.
Avvolgete con strisce di luci le ombre in cui dimorano i vostri nonni.
Vivere è un mestiere difficile a tutte le età, ma voi siete in un punto del mondo in cui il dolore più facilmente si fa arte: e allora suonate, cantate, scrivete, fotografate. non lo fate per darvi arie creative, fatelo perché siete la prua del mondo: davanti a voi non c’è nessuno. Il sud italiano è un inganno e un prodigio. Lasciate gli inganni ai mestieranti della vita piccola. Pensate che la vita è colossale. Siate i ragazzi e le ragazze del prodigio»

È un ruolo sociale la poesia quindi? E la paesologia?

La paesologia per questo deve essere una militanza lieta, felice, ballata e vissuta. Perché nel frattempo, il nostro ancoraggio al modello novecentesco, alla produzione incessante ci fa perdere la testa. Ci confonde le idee stordendoci. Stiamo guarendo e morendo nello stesso momento.

Per questo il paese ti può avvilire o ti può salvare.

Si può salire il paese da varie strade, da varie frane
Si può salire il paese da varie strade, da varie frane (Franco Arminio)

Nomina spesso Manlio Rossi Doria nei suoi testi? In che modo la sua figura era importante?

Oltre ai legami famigliari Rossi Doria era un modello di intellettuale perfettamente in mezzo, tra globale e locale. Il mio legame più forte con Rossi Doria è l’importanza data alla terra, alla sua educazione.
Se l’avessero ascoltato in tempo, ora sarebbe una modernità più sana.

I paesi del nord cosa ti raccontano?

A una prima occhiata quasi non esistono. Fino a questa mia visita al paesino di Piero non mi ero mai commosso al Nord.
La visita a Piero mi ha commosso, in provincia di Varese, un nucleo rurale di montagna con 16 abitanti e raggiungibile solo a piedi mi ha fatto pensare a un “Aliano” possibile anche al Nord. Ho sempre fatto fatica a trovare un senso di commozione in Lombardia, non sentendo l’elemento comunitario, non riesco a far addensare la mia scrittura. Ma Piero mi ha colpito e ora voglio tornare più spesso al Nord.

Non sono un affezionato alla paesanità, vivere il paese da esterno, sentirlo da esterno. Ci può volere un’ora oppure un giorno, due. Visto che da ieri a oggi, spostandomi, mi sento in un’altra epoca. E allora riesco a vedere un paese anche in mezzo a una città. Il mio compito è questo, il vero metodo: senza soldi, con un altro approccio alla vita.

Quello che serve, in fondo, è una grande opera di sartoria, con ago e filo, per cercare di ricucire il mondo.

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Quindi una visione positiva del futuro?

In questo clima di “autismo corale” oscillo sempre tra ottimismo e scoraggiamento. Avvilito e salvato, come i paesi che attraverso. L’ottimismo nasce dai progetti che incontro nell’Italia intera, piccoli progetti di grandi comunità. Tutta l’Italia ha bisogno di poesia, geografia, di racconti e contadini. Che siano la forza che manca, per riportare l’attenzione sulla terra e i territori.

 

Intanto la realtà della Stazione Centrale ci propone delle ballerinecomparse che sfilano davanti a noi mettendosi come statue sulla scala mobile. Quello che pensiamo spesso è “loro non potrebbero capire”. Le stesse persone che stanno correndo verso un treno, scansando le ballerine, hanno una sensibilità nascosta che se solo uscisse fuori, ne rimarremmo felicemente stupiti. Serve solo qualcuno che li fermi e che glielo chieda.

Nel frattempo parlare di paesologia in una città è diventato possibile. L’orologio della biglietteria ci ricorda che è più di un’ora che parliamo. È tempo di andare.

 

 

 

Intervista realizzata in collaborazione con lo sguardo di Alfio Sironi. Qui di seguito la sua intervista uscita ieri sulla rivista noprofit di cultura, ambiente e politica Vorrei.

 

 

Fausta Riva

Fausta Riva nasce in Brianza nel 1990.
Geografa di formazione(Geography L-6) poi specializzata in fotografia al cfp Bauer.
Oggi collabora con agenzie fotografiche e lavora come freelance nel mondo della comunicazione visiva.
Fausta Riva nasce sognatrice, esploratrice dell’ordinario. Ama le poesie, ama perdersi e lasciarsi ispirare.