Se ci si imbattesse per la prima volta in un libro di Michele Mari, e lo si leggesse anche distrattamente, di certo balzerebbe all’occhio una peculiarità lampante della sua prosa. Si noterebbe nella sintassi, nelle scelte lessicali, persino nella morfologia delle parole, una certa veste antiquata, una patina vetusta. Il discorso di Mari, infatti, è infarcito d’una larga quota di iperletterarietà. Egli si inserisce, con lodevole capacità istrionica, nella nostrana tradizione di manipolatori linguistici. Insomma, è quel tipo (singolarissimo) di manierista la cui penna si esprime in modo naturale più con la lingua settecentesca e ottocentesca che non con il neostandard – al quale ricorre, di contro, bisogna dirlo, la maggior parte dei nostri scrittori viventi. In ossequio ad un orgoglioso anticonformismo, disprezza la massa e la sua lingua:
La letteratura non dovrebbe avere mai nulla a che fare con l’uso. Può ricorrere talvolta, o anche spesso, a forme d’uso, ma sempre seguendo leggi proprie per cui l’uso stesso – essendo assunto come ingrediente, come possibile ingrediente – diventa letterarietà o vi partecipa
La letteratura secondo Mari
Ma perché tanta acredine nei confronti della lingua di tutti i giorni? Bisogna comprendere che Michele Mari ha della letteratura una concezione sacra e un senso liturgico, rituale. Tutto ciò che ha a che fare con un’iniziazione misterica – come la letteratura – necessita di una lingua appropriata, anzi, di una lingua altra. Non si può ricorrere, certo, al parlato ordinario per un oggetto extra-ordinario, magico. Mari, come ha tenuto a dichiarare, ha un senso diacronico della lingua, non sincronico: il suo interesse è volto alle parole di tutte le epoche passate. Egli ama la parola lontana in quanto metonimia o traccia d’un intero mondo ormai scomparso. La sua prosa, con il desiderio di riportarli in vita, instaura un rapporto (spesso feticistico) con oggetti e ricordi del passato.
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Sorge una domanda: così facendo, parlando ad esempio come un uomo d’altri tempi, egli non corre forse il rischio di risultare poco autentico e spontaneo? È notevole, certo, qualcuno potrebbe sostenere, la capacità di intrecciare nel textus la propria voce con riferimenti e citazioni dei giganti della letteratura. Però, diamine, questo adoperare ostinatamente forme antiche e anacronistiche delle parole non può che produrre un senso di inverosimiglianza. Per esempio nel racconto La legnaia (in Euridice aveva un cane, 1993), un padre, al figlio terrorizzato da notturni mostri immaginari, si rivolge in questa bislacca maniera:
‘sti lucertoloni e ‘sti uomini-lupo del cacchio, già già, buoni per passarci mezzo pomeriggio, po’ basta però, eh? Basta! Ma… ma ma tu frigni! Intollerabil davvero […]. Senti Sebastianino Sebastanello Bellino, sai cosa faremo? Faremo una prova. Stanotte, debitamente ignudo, senza conforto di lume, n’andrai solo soletto alla legnaia, traversando il prato tenebricoso e umidiccio
Ovviamente il lettore non potrà che constatare la scarsissima realisticità del dialogo. Nessun padre, oggi, concepirebbe un tale rimbrotto al figlio lagnoso. Né mai nessuno, d’altronde, in passato. Infatti, l’intento di esprimersi facendo riecheggiare, entro la propria, la voce di mille letterature, ha suscitato in alcuni critici il giudizio d’una certa artificialità.
La nobilitazione del linguaggio
L’autore di Di bestia in bestia risponde così: «I miei libri sono stati spesso ricondotti a una poetica del falso, però è anche vero che non si dà per me la possibilità di essere “autentico” se non attraverso quella presunta falsità». La verità è che quanto più Michele Mari narra con mezzi espressivi imbevuti di letterarietà – ora esplicita, ora implicita – tanto più egli sente di riuscire in sincerità e veridicità. La veste iperletteraria è la chiave che apre la porta a quei «grumo-nodi irrisolti, nella mia vita, che voglio lasciare irrisolti», come scrive in Leggenda privata (2017, acquista), secondo Andrea Cortellessa il più bel libro negli ultimi quindici anni.
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C’è di più. Questo tipo artificio di prosa permette lui di affrontare argomenti scabrosi e privati:
per esempio, ho scritto tre volte di argomenti sessuali […] In tutti e tre i casi ho fatto ricorso a una prosa neoclassica, perché altrimenti non avrei potuto toccare quegli argomenti
Al proposito leggiamo un brano del racconto In virtù della mostruosa intensità (dalla raccolta sopracitata). Il protagonista – il personaggio-leggenda Michele Mari – visita un appartamento per un possibile acquisto. Gli capita di posare lo sguardo sul gabinetto dei vecchi proprietari, lasciandosi scivolare in lugubri paranoie mentali:
immaginavo dunque la quantità complessiva di escrementizia matesi che dovea aver ricevuto negli anni: […] suggestiva montagna bruna, fumigante, animata da piccoli smottamenti, da discrete slavine che ne diceano i più che chtonî chimismi.
Poi, con sgomento, si sofferma sul letto della stanza matrimoniale:
trito talamo antiquo, consunta piazza di amplessi smagati che si ripetevano davanti a me come uno spettacolo senza ragione né fine […] io lo vedevo scomposto, polluto, mi sembrava perfino, a prestare un po’ più di attenzione, di vederci svolazzar sopra i loro sogni, tante tristi speranze, tante estasi orrende.
L’argomento è dei più bassi, eppure Mari nobilita il linguaggio rivestendolo di quella letterarietà usa a edulcorare il tutto. Ciò produce un effetto assolutamente dissonante e straniante: i vari “dovea”, “diceano”, “antiquo” – solo per citarne alcuni – cozzano, e non poco, se accostati a un tema così disdicevole.
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L’ironia di Michele Mari
Tuttavia, non va sottovalutato un altro aspetto centrale: quello già accennato dell’ironia. L’effetto dissonante suscita, infatti, o può suscitare, un certo sorriso sghembo. Il già citato passo del padre che si rivolge al pavido figliolo, per esempio, può essere letto in questa chiave. Ma prendiamo un altro racconto, L’orrore dei giardinetti (dal celebre Tu, sanguinosa infanzia, del 1997). Qui l’autore, anche con autoironia, gioca con l’attitudine misantropa che lo contraddistingue sin dall’infanzia. Si descrive una traumatica giornata al parco giochi, dove il piccolo Michele è sconvolto dallo “scatarracchio” (gli sputi) degli altri bambini:
che in controsole tu vedi come un’aspra cometa seguita da una scia di goccioline minori, e intanto ti chiedi come si possa, sì, tu che solo nel lavandino, e solo a perpendicolo direttamente nel buco dello scarico, e solo in privato, e solo per fondati motivi, e anche allora con una certa vergogna […] e addirittura, taluno, anticipatamente annunziarla con incivile arrotolamento di flegma, o piuttosto di dense salive che vogliono spaccarsi per esso flegma, tanto più giallastro e verdastro, si pretende, quanto più scrosciante è quel raschio
Il senso opprimente, scaturito delle ossessive idiosincrasie del bimbo, si va ad amalgamare con l’ironia di chi scherza con i difetti del proprio carattere. In questo modo il lettore oscilla tra il prendere sul serio la psicosi infantile del protagonista e il liberarsi in un sorriso sdrammatizzante. Se ripensiamo ai passi dei racconti finora citati, possiamo notare un minimo comun denominatore: l’attenzione volta all’infanzia. Ciò che viene dopo, afferma Mari, «non è un tema letterariamente interessante per me». Patricia Peterle ha visto la scrittura di Mari come un invito a entrare in un mondo particolare (la puerizia) fatto di reminiscenze e rovine.
«I palloni del signor Kurz»
A questo proposito, I palloni del signor Kurz (da Euridice aveva un cane) può essere preso come esempio. Qui lo scrittore milanese ci narra della vita noiosa di alcuni ragazzi in collegio. Noiosa sì, ma con l’eccezione d’un ritaglio di tempo benedetto, ieratico: la partita di pallone. Del calcio – come la letteratura – Michele Mari ha una concezione sacra. Purtroppo, con costanza ciclica, durante il magico evento dei fanciulli, capita che il pallone voli di là d’un muro che recinta la proprietà d’un tal signor Kurz. In questo modo gli oggetti sferici vengono smarriti per sempre. Mai nessuno, in tanti anni, è riuscito a recuperarne uno, nemmeno le insegnanti.
La frustrazione che deriva dalla brusca interruzione della fatidica partitella porta alla sospensione di tutte le rivalità interne. I collegiali, ora, vivono gli stessi sentimenti e avvertono un comune ed unico nemico: il signor Kurz. Una notte Bragonzi, uno dei ragazzi, decide di lanciarsi al hazard e oltrepassare quel fatale muro. Riuscito nell’impresa di scavalcarlo, il ragazzo finalmente poggia i piedi sul terreno del vicino. Qui scopre qualcosa che nessuno mai era giunto a conoscere: il misterioso Kurz conservava, da epoche lontane, i loro amati palloni.
Le sfere, come reliquie, nota, sono poste sopra dei vasi sotto i quali è riportata una scritta che indica la data d’ingresso nella serra. Il primo risale al 1933, poi, custoditi in ordine cronologico, ve ne sono di tutti gli anni, fino a quelli più recenti. E, di seguito, mira una «fila di vasi vuoti, pronti ad accogliere i nuovi arrivati…». Bragonzi comprende che il suo pallone, l’ultimo ospite della serra, allo stesso modo del primo, quello del ’33, era stato sottratto alla distruzione:
E molti anni dopo, quando tutti quei bambini sarebbero scesi nelle loro tombe, quel pallone sarebbe stato più vivo di loro, e sarebbe stato la memoria delle partite di un tempo.
Così il ragazzo torna in collegio senza riappropriarsi dell’oggetto amato, con il fine di salvarlo. Un giorno viene a trovarlo suo padre con un regalo: un nuovo pallone, molto costoso, e più bello dell’ultimo smarrito. Tuttavia il giovane, acquisita nuova consapevolezza dall’ultima esperienza, decide di lanciarlo oltre il muro per sottrarlo al tempo che lo avrebbe spazzato via dal mondo. Solo così qualcosa di loro, dei collegiali, potrà continuare a vivere quando, ormai, non saranno più vivi. Grazie alla rinuncia dell’oggetto salvifico, egli può innalzarlo a santa vestigia, contenitore del passato: proprio come le parole antiche della letteratura. Il ragazzo travasa la sua vita nel pallone per garantirgli un futuro, e quella dei collegiali, le memorie, gli attimi più belli. Allo stesso modo le parole, le citazioni, i riferimenti, come fossili letterari e frammenti di memorie, racchiudono tutto un mondo colmo di significazioni: la vita passata.
Paolo Di Piramo
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