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Il teorema dell’assenza di forma di Robert Musil

Il teorema dell’assenza di forma di Robert Musil si presenta come una dirompente tesi estremamente realistica e cruda.

21 minuti di lettura

Confrontarsi con il concetto di Gestaltlosigkeit di Robert Musil significa andare al cuore della questione preponderante, la cosa originaria, dell’umanità come tale. 

Prima della storia, prima dell’evoluzione sapienziale della nostra specie. Lì sta la condizione non temporale e sovraculturale dell’essere umano. 

La Gestaltlosigkeit ci pone di fronte al dilemma del nulla, alla domanda fondamentale della filosofia

La nullità è però estranea all’assenza di forma, è anzi il suo radicale opposto. La Gestaltlosigkeit di Robert Musil nomina infatti la forma di cui è privo l’essere umano costantemente riempito di contenuti, dando e prendendo. 

Nomina cioè una originaria essenza adattiva dell’essere umano. La dialettica del dare e prendere dall’ambiente circostante. 

L’assenza di forma è l’orizzonte ontologico della pluralità di contenuti possibili che riempiono senza mai colmare la misura, senza che uno di questi prevalga e si imponga sugli altri in modo da formare il contenuto unitario di una uniformità definitiva perenne. 

Insomma, il concetto di Gestaltlosigkeit è ontologico in senso aristotelico, chiamando in causa la possibilità di realizzazione, delineando i contorni di una tesi antropologica. 

Robert Musil nelle bozze de L’uomo tedesco come sintomo, congiunge politica, filosofia, storia della cultura e delle idee, sociologia, critica psicologica. 

Se si sceglie una comparazione ben circoscrivibile nel tempo e nello spazio, per esempio, quella delle tesi musiliane e delle riflessioni heideggeriane su possibilità e nullità, si schiude un cono di luce sulla mentalità di un’epoca, quella della prima metà del Novecento. 

Verso concetti come ideologia, destino, volontà risoluta, forza, lotta indirizzata a scopi elevati, abbiamo sviluppato una avversione generale e irremovibile, non tanto per un particolare afflato nei confronti dei concetti opposti, quanto invece per paura di quei concetti, o meglio di ciò che quei concetti hanno portato nella vita attiva dell’Europa novecentesca. Le alternative a questi concetti si sostanziano in due differenti comportamenti, l’illuminismo disincantato che elimina ogni ideologia in favore del lucido buon senso, il quale in fondo oggi si riduce all’indifferenza, che anche nell’ assistenzialismo di facciata, obbedisce al principio economico. L’altra tendenza etica va nella direzione opposta del soddisfacimento di impulsi con minimi momenti di razionalità davvero efficace. Queste due prassi, anziché annullarsi a vicenda o escludersi, reiterano una degenerazione mantenuta in vita da una brutta razionalità e tenuta al riparo da scosse rivoluzionarie dirompenti e catastrofiche. Siamo dunque nella situazione dinamica di un ristagnare politico congiunto ad un fervente progressismo sociale. Il frantumarsi dell’identità come concetto sociale, e di pari passo il frantumarsi del personalismo politico, significano che il contenuto di individualità private nella società e di personalismi politici nelle istituzioni non è più definibile e identificabile in modo davvero convincente. In altre parole, nessuno crede più nell’esistenza reale di contenuti e di volontà uniformi tendenti ad uno scopo preciso, perché di ciascun contenuto personale o istituzionale si notano subito, con il giusto sospetto e la ponderata diffidenza, le contraddizioni e i secondi fini. 

L’etica borghese ha quindi raggiunto il suo compimento nel nostro tempo: il disincanto e l’ignoranza, insieme al desiderio di universalizzare il principio economico, ha reso la borghesia imprenditoriale il modello di uno stile di vita florido. A ciò si aggiunge il pensiero calcolante e un discernimento razionale che stronca qualsiasi attacco allo status quo borghese. 

La borghesia, con tutta la sua immane assuefazione al lavoro, al principio economico regolatore e latore di vita, ha imparato a perpetuarsi rendendosi di fatto immune a qualsiasi attacco rivoluzionario immaginabile oggi. 

L’ideologia è stata rimossa e con essa anche la lotta per la realizzazione politica di ideali.

La cosa interessante è che Robert Musil si presenta come voce intellettuale, al livello teorico, completamente anti-nazista. Il teorema dell’assenza di forma nell’uomo rappresenta infatti il contrario dell’unità identitaria della razza, che Dietrich Hekart e il giovane Adolf Hitler, tentavano, proprio in quegli stessi anni, di far attecchire nell’opinione pubblica e di far assimilare nella cultura tedesca ed europea. Mentre Robert Musil confutava la teoria della razza avveniva il fallito Putsch alla Bürgerbräukeller di Monaco. 

Sorprendentemente, ciò che Robert Musil rileva della condizione spirituale e pratica di quel periodo è rinvenibile però anche nelle pagine del Mein Kampf di Adolf Hitler. Il filo conduttore è la spaesatezza che permea la vita quotidiana di una società priva di una ideologia comunitaria abbastanza forte da imporsi e dirigere il particolarismo plurale dei singoli individui e della loro vita psicologica e pratica. La borghesia è la classe dominante e questa non conosce altro che il circolo egoistico denaro-lavoro, regolato dal principio economico. 

Questo scenario culturale e psicosociale è oggi al massimo della sua espressione storica. Il mondo è pervaso da scettico cinismo e da indifferenza in un modo inedito. Il compimento della borghesia ha avuto ed ha effetti devastanti nell’epoca digitale. La decadenza dilagante è ben radicata. I buoni sentimenti, al pari dell’egoismo di cui parla Robert Musil, sono vettori delle soluzioni pratiche in un senso o nell’altro. 

Se osserviamo come si è andato conformando il dibattito pubblico sull’immigrazione e, più recentemente sul Covid e poi sulla guerra in Ucraina, notiamo subito l’inclinazione psicologica all’estremizzazione partigiana. Il campo diplomatico della mediazione, proprio come concetto, è una prassi che il pensiero borghesizzato dal principio economico scarta a priori. Il metodo critico si palesa nella sua superficialità facilona. Eppure, è proprio questo desiderio di assumere posizioni estreme che potrebbe rappresentare non l’assenza di forma, ma una rivincita dell’ideologia radicale, salvo il fatto che nessuno è infondo disposto ad assumere radicalmente una posizione estrema come principio pratico, portandola alle estreme conseguenze. Dunque l’ideologia è ora solo ideale, e si afferma nei discorsi per restare largamente solo nei discorsi. Come Robert Musil aveva compreso, la decadenza non dipende da una eccessiva maturazione, ma da una scarsa maturità. Questo stato incoativo dell’ideologia, mentre si condanna ogni pensiero ideologizzante e si encomia la critica, è segno in effetti di una duplice immaturità: sia dal versante della ideologia, sia dal versante della critica stessa. Una immaturità essenziale che va oltre i giudizi di valore rivolti alle due possibilità. 

Prendere una posizione estrema è quindi fondamentalmente oggi solo un modo rozzo di non ragionare a fondo e al contempo di svignarsela davanti alla responsabilità della conseguenze di una posizione estrema realizzata nel concreto delle nostre vite. Non è mai, cioè, segno di una volontà risoluta tendente ad uno scopo. L’assenza di forma è quindi oggi non tanto la pluralità di possibilità, un dare e ricevere vicendevole senza l’assunzione di una forma sclerotica, bensì un nichilismo delle possibilità. Un brulicare di possibilità trattenuto allo statu potentiae da pensieri e azioni superficiali, irrazionali, non responsabili. Uno stato di assuefazione all’inattività, precisamente a quella inattività frenetica che è la prassi amministrativo-economica ordinaria di una società borghese capitalizzata. 

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Sono tristemente attuali anche le considerazioni che Robert Musil pronuncia nel 1937 sulla stupidità sociale come malattia della cultura, nonché la drammatica constatazione della illogicità della massa, una irragionevolezza di fondo, che unita all’egoismo organizzato dal denaro, il sentimento umano più affidabile per il filosofo austriaco, costruisce un mondo umano fondato non su idee e vere riflessioni, ma su suggestioni emotive che plasmano i fatti e le azioni, il dare e ricevere di esseri umani trascinati da una forma all’altra. L’unica impossibilità è la determinazione. Non si può che pensare ai concetti heideggeriani di Geworfenheit e di Jemeinigkeit dell’essere dell’Esserci. 

Eppure, la constatazione con cui Max Scheler avvia, nel 1914, il suo saggio Die Zukunft des Kapitalismus (l’avvenire del capitalismo) pende ancora sul nostro capo, pervadendo la nostra vita:  «il capitalismo non è, in primo luogo, un sistema economico di distribuzione di possesso, ma un sistema complessivo di cultura di vita»

Musil aggiunge: «il denaro è diventato la misura di tutte le cose e di queste stesse nessuna misura il valore dell’uomo.»

L’essere umano è quindi solo un definiendum astratto, un soggetto informe pieno di funzioni e di possibilità instabili stabilizzate meccanicamente dalla cieca forza gravitazionale del caso regolato dal principio economico, il solo principio di individuazione efficace giacché più forte di ciò che il pensiero crede di afferrare come necessario. 

Il teorema dell’assenza di forma è dunque un ossimoro, giacché esso tenta di pensare uno stato di cose assolutamente anti-matematico. Gestaltlosigkeit è la continua tensione antropogenica tra nichilismo e utopia. Utopia che, scrive Robert Musil, è parola dal significato prossimo a quello del termine possibilità. 

Il teorema dell’assenza di forma si presenta come una dirompente tesi estremamente realistica, cruda, e assolutamente anti-essenzialista; perciò né idealistica né, più in generale, metafisica. 

Robert Musil pensa a una dialettica concreta, hegeliana, tra una assenza di forma essenziale, interna, propria dell’essere umano come tale, e i vari influssi esterni che di volta in volta gli fanno assumere una particolare forma possibile. Le forme sono, rispetto all’uomo, intercambiabili e tutte hanno pari dignità in quanto tali. L’influsso esterno è però per lui sempre più forte e più determinante di un qualsiasi auto-influsso, dal momento che l’essere umano è interiormente vuoto

Mentre l’intellighenzia nazista propagandava l’ideologia iperidentitaria della razza superiore, del radicamento fondato sugli elementi umici di terra e sangue, la politica del compito destinale del popolo tedesco; Robert Musil tratteggiava una teoria antropologica iper realista, anti-razziale, contro-identitaria, in grado di contrastare anche la più forte opposta ideologia. Sappiamo chi ebbe la meglio in quegli anni. Pagine della storia europea segnate dal potente nesso tra stupidità e progresso che, ironia della sorte, era stato proprio lo stesso Musil a denunciare. Paradosso e ripetizione. Di Adolf Hitler Robert Musil scrive, negli anni Trenta, questo appunto nel suo diario: «H. Un affetto che è diventato persona, un affetto parlante. Eccita la volontà priva di meta.»

La volontà priva di meta è l’esatto rovescio dello spirito del nostro tempo. Oggi abbiamo la meta senza volontà. Non vediamo nitidamente altro che il risultato, vivendo l’angosciosa ignoranza su come raggiungerlo. 

Nella manipolazione ormai strutturale dei concetti, nessuna pianificazione filosofica riesce oggi a riformare una prassi razionale che solo riesca a schiudere il ventaglio delle possibilità. 

La responsabilità non fa più nessuna presa sulle coscienze, proprio mentre diventa strumento prediletto del potere. 

La pluralità di vedute, di condizioni, di connessioni, di etiche la vediamo oggi nella sua incontrollabile forza. Questa variegata dirompenza eccede le relazioni esistenti, perciò capiamo finalmente il senso profondamente inefficace di qualsiasi riduzionismo particolare. La possibilità sta più in alto della realtà. L’ideologia è la forma più emotivamente efficace di riduzionismo particolaristico: benché miri ad una realtà solo ideale, la volontà indirizzata a scopi ideali osserva sempre una realtà, mentre crede di realizzare possibilità inattuali. Ciò perché l’ideale è unitario e prefissato, anche se come proposito, col pensiero. 

Le fazioni costituiscono la pluralità, le differenze. Sono quindi tanto ineliminabili quanto refrattarie alla conciliazione uniforme. Non c’è sintesi, perché anche le sintesi possibili sono infinite. Rinunciare alla sintesi è la grande sfida del nostro presente. Il prezzo che stiamo pagando per dilatare la mentalità capitalistica senza dargli più alcuna fiducia corrisponde al modo che abbiamo trovato per far esistere nuove differenze e far resistere quelle già esistenti. Questa è la ragione per cui l’establishment attuale non ha bisogno di rivoluzioni. Se lo stato di eccezione è permanente, allora questo è il tempo delle possibilità, non del vecchio che deve finire e del nuovo che deve sopraggiungere. Questo dare e ricevere continuo e differenziato è reso possibile dall’assenza di forma, la condizione ontologica del fiorire delle possibilità infinite. Questa ontologia delle possibilità è al di là dell’etica e dell’essere. Il pensiero calcolante si rivela in tutta la sua vacuità non appena si utilizza per definire i modi del possibile. Il rimodellamento costante dei rapporti tra ordine e caso suggerisce l’asistematicità del nostro tempo, che per l’appunto è il tempo delle possibilità e delle relazioni flessibili e trasversali. Il post strutturalismo francese, il teorema della Gestaltlosigkeit, il concetto heideggeriano di mondo e di possibile, la filosofia delle antropotecniche di Peter Sloterdijk hanno preparato il terreno teorico per abitare questo tempo in cui protagoniste sono le possibilità. E possibilità è la parola più vicina ad utopia. 

Se il nostro tempo è il tempo della comprensione delle possibilità infinite, dell’accettazione consapevole dell’assenza di forma dell’uomo, allora il nostro tempo è un brodo primordiale etico e cognitivo. Una fucina di novità in cui operiamo e assistiamo a fenomeni inediti con una nonchalance di fondo. Accettazione e rassegnazione. Disincanto radicale del possibile. Iniziativa e creatività mediate da sensi remoti o fin troppo superficiali. Il pensiero che accetta il possibile infinito corre molto più veloce di fatti e valori, dunque scopre la limitatezza teorica e pratica di qualsiasi cosa posta in essere. 

Accetta l’imprevisto, la possibilità dell’ignoto, che è l’essenza della possibilità come tale, se vogliamo. accetta la possibilità della fine del mondo e della propria vita decisa all’improvviso da decisioni di cui non sospetta o che teme. 

L’assenza di forma è questa dialettica degli influssi che si determina nelle possibilità infinite, in cui, avverte Robert Musil, può annidarsi e dilagare come una epidemia la forma più terribile di stupidità, la “stupidità intelligente”, pericolosa per la vita stessa, ostinata nel suo mostrarsi e apparire il contrario di quello che è. 

Questa astuta forma di stupidità può davvero distruggerci oggigiorno, più che ai tempi di Robert Musil, perché nel nostro tempo la possibilità è stata posta al centro, sì, ma ogni possibilità che, volta in volta, viene all’essere passa attraverso il filtro della macchinazione. O, nelle parole di Musil:

Non c’è praticamente nessun pensiero importante che la stupidità non sia in grado di utilizzare, essa è mobile in tutti i sensi e può indossare tutti i vestiti della verità. La verità invece ha solo una veste in ogni occasione; e solo una via, ed è sempre in svantaggio. La stupidità che s’intende con ciò non è una malattia mentale, eppure è la più pericolosa malattia della mente, pericolosa perfino per la vita.

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Lorenzo Pampanini

Classe 1994. Laureato in Scienze Filosofiche all'Università La Sapienza di Roma.

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