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«L’irrealizzabile. Per una politica dell’ontologia», di Agamben

Il filosofo decostruisce e reinterpreta le categorie metafisiche dell’ontologia politica occidentale, conferendo loro un assetto teoretico e pratico preciso, che conduce alla comprensione della connessione originaria tra reale struttura ontologica, conoscenza trascendentale, e vera politica.

27 minuti di lettura

Giorgio Agamben è tra i filosofi italiani più noti e letti su scala planetaria. Un dato di fatto simile non si può ignorare o sottostimare. L’irrealizzabile. Per una politica dell’ontologia (Einaudi, 2022) è l’ultimo libro di Agamben.

Il titolo nomina un concetto, «l’irrealizzabile», e presenta una formula, «politica dell’ontologia». Le domande immediate che ha senso porsi sono: cos’è l’irrealizzabile? che cosa vuol dire «politica dell’ontologia»? Ebbene, le risposte a queste domande non sono direttamente consegnate al lettore. Al contrario, compito di chi legge l’opera è anzitutto cercarle e trovarle. 

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Prima di tentare un’analisi, necessariamente sommaria, del contenuto dell’opera, conviene soffermarsi brevemente sulla sua struttura. Agamben scrive paragrafi brevi e assai densi: la quantità di materiale letterario e di posizioni filosofiche (e teologiche) messe al vaglio è ingente. Lo stile folto e la ricchezza tematica del contenuto contribuiscono in modo eccezionale a disilludere chi legge con l’intenzione di ottenere una comprensione celere dell’unità dell’opera e della tesi filosofica sostenuta in essa. Al contrario, è richiesta a chi legge la massima attenzione, ed un puntuale esercizio riflessivo

Per queste ragioni, il libro è un’opera filosofica nel senso più elevato ed eminente del termine: lo sforzo richiesto dall’autore è volto a misurare le implicazioni dell’impervia tesi filosofica sostenuta, dopo aver sciolto e ricomposto il fitto intreccio di esegesi e speculazioni, costituito da balzi tematici e storici sostenuti da inedite ed acute interrelazioni interpretative tra molti autori. 

Il filosofo esordisce argomentando come, in termini comunemente anti-intuitivi (ma noti ai lettori di Hegel ed Heidegger), la realtà realizzata è, per sua stessa essenza, irrealizzabile (ciò che è realizzato è abolito), e l’autentica possibilità è invero impossibile (il possibile non si esaurisce mai nel realizzato). Agamben apre subito, sul piano teoretico, uno iato tra possibile e reale, che approfondirà nel terzo capitolo. 

Dopodiché passa ad argomentare, sul piano della filosofia della storia – con Hegel e Benjamin – come l’irrealizzabile dipenda sia dal movimento dialettico, sia dall’incalcolabilità di ciò che avviene nel tempo: la realtà non coincide con ciò che è realizzato definitivamente, ma propriamente con ciò che è sempre non realizzabile compiutamente. Merita di essere riportata questa prima asserzione netta di Agamben, sulla scia del messianico in Walter Benjamin: 

La possibilità non è qualcosa che deve, passando all’atto, realizzarsi: essa è, al contrario, l’assolutamente irrealizzabile, la cui in sé compiuta realtà agisce sull’accadere storico che si è pietrificato nei fatti come un termine, cioè spezzandolo e annichilendolo. Per questo il metodo della politica mondiale «deve essere chiamato nichilismo.»(p. 15)

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Già da questa tesi, ricca di implicazioni via via sviluppate nel libro, è possibile farsi un’idea sul significato del titolo scelto da Agamben. La formula «politica dell’ontologia» necessità di una spiegazione. Soprattutto perché Agamben, intenzionalmente, non la spiega mai nel corso del libro. È, quindi, il primo compito dei lettori attenti cercare di comprendere il significato di tale formula, in base alle riflessioni condotte nel volume. 

Anzitutto, salta all’occhio un’inversione di termini: Agamben non scrive «ontologia della politica», bensì «politica dell’ontologia». 

«Politica dell’ontologia» significa, allora, che la politica (autoaffezione del soggetto a sé stesso, auto-apprensione che svela l’apparire stesso, e dunque lo apre all’apparire delle cose del mondo) è presente nel fondamento dell’essere «prima» dell’ente (come spazialità pura, apparenza dell’apparire non oggettuale, precedente a qualsiasi cosa o fenomeno concreto, di cui il soggetto è già sempre affetto necessariamente, che non può non immaginare già prima di ogni conoscenza ed azione). La politica, così insolitamente concepita, in modo differente dal senso comune (attività regolamentata di soggetti sociali e giuridici), è ciò che sorge dalla struttura ontologica stessa del soggetto pensante ed operante, dalle condizioni del suo proprio essere aperto, cioè da possibilità e realtà, essenza ed essere. 

Una compressa sinossi teoretica del volume come questa, qualora sia corretta, risulterà sicuramente involuta e astrusa. Tentiamo, dunque, di cogliere più chiaramente la trattazione di Agamben, tenendo conto anche del valore e della posizione che essa ricopre nella ricerca filosofica dell’autore (Agamben ha voluto riportare, in forma di appendice, il testo della lezione che tenne nel 1987 per il concorso da professore associato, la quale, per sua stessa ammissione, anticipa temi sviluppati nel libro, e quindi serve a mostrare continuità e sviluppi della sua ricerca filosofica). 

Nel corso della sua attività, Giorgio Agamben si è a più riprese impegnato a decostruire l’interpretazione che inserisce le nozioni aristoteliche di potenza e atto in una correlazione intesa come «passaggio da.. a…» sino ad elaborarne una riformulazione teoretica, non al di là di Aristotele, ma rinvenendo già nelle opere dello stagirita un differente rapporto tra le due categorie. 

Sin ora, però, Agamben, sempre coordinando l’aspetto teologico-politico ed etico-esistenziale, aveva sviluppato la sua tesi su potenza e atto soprattuto sul versante antropologico (inoperosità), senza esporne tutte le implicazioni sul piano ontologico-metafisico. In L’irrealizzabile, integrandola con il tema di possibilità e realtà nell’apparire della «cosa», Agamben radicalizza la propria tesi sulla reciproca autonomia e coestensione – che rendono potenza e atto «distinti e però inseparabili» – facendone emergere le profonde implicazioni ontologiche. Agamben compie, nell L’irrealizzabile. Per una politica dell’ontologia, una fondazione sistematica, con la quale chiude il cerchio speculativo delle sue ricerche in merito. 

L’irrealizzabile

Potenza e atto, espone Agamben, hanno radici più antiche del nuovo conio, lessicale e terminologico, che Aristotele diede alle due categorie filosofiche, nonché un significato filosofico più esteso e profondo, rispetto al contesto e al modo in cui, a prima vista, Aristotele se ne serve nelle sue opere. Tentando di far emergere il valore assoluto che ricoprono possibilità e realtà, potenza e atto, essenza ed esistenza, sia sul piano metafisico-cosmologico (la ricostruzione della storia filosofica dell’esegesi della chora del Timeo, della quale Agamben presenta una sua personale interpretazione) sia su quello teologico-esistenziale (autori scolastici, Dante, Cusano, Kant, Heidegger) e scientifico-filosofico (lo spazio e la corporeità in More, Newton, Cartesio, Leibniz, e Hobbes), Agamben salda la struttura metafisica del cosmo, la struttura ontologica della realtà, la struttura esistenziale-conoscitiva dell’uomo, e l’essere di Dio, con l’apparire fenomenologico della cosa, e con il vivere ed operare etico e politico. 

Il collante che unifica tutti questi piani in una teoria filosofica sistematica è proprio la nozione agambeniana di politica. 

Due sono i passaggi chiave di L’irrealizzabile. Per una politica dell’ontologia, in cui Agamben nomina esplicitamente, nel suo discorso, la parola «politica». 

«… una possibilità come tale perfettamente irrealizzabile. La politica che si attiene a questa possibilità irrealizzabile è la sola vera politica(p. 86)

«… la vera politica è una chorologia» (p. 123)

Chora, steresis, e l’origine dell’adynamia 

Agamben definisce il passaggio, necessario e inevitabile dall’uno all’altro, che lega potenza e atto e ne fa una correlazione (l’esistenza come realizzazione della possibilità più propria dell’essenza), «la macchina ontologico-politica dell’Occidente». L’idea che sta alla base dell’Occidente è quella di considerare l’esistente come inserito in un meccanismo ontologico per cui ciò che viene ad essere da una condizione di possibilità è ciò che è realmente esistente, cioè realizzato, reso attualmente presente esclusivamente dalla processualità meccanica del passaggio da una condizione di assenza che lo precede, senza nessuna medialità di un «terzo termine»

Se si accetta l’idea di questo meccanismo, ciò che è allo statu potentiae non è mai reale, nel senso che non è una «cosa» in atto. Agamben decostruisce questa visione, ai suoi occhi assente già in Aristotele, e mostra come effettivamente la possibilità (dynamis) è di per sé pienamente reale, a prescindere dalla presunta realizzazione di essa nel passaggio all’atto, riscoprendo la medialità del «terzo termine.»

L’adynamia è, quindi, la condizione di autonomia ontologica della dynamis, che se viene fraintesa e pensata soltanto come status inerte e inconsistente, precedente alla realizzazione, non è più possibilità, ma stato temporaneo di irrealizzazione di un realizzabile, prossimo a realizzarsi. Ma se così fosse, la realizzazione non abolirebbe hegelianamente la «cosa» realizzata, ma sarebbe solo un compimento definito che rende, da quel momento temporale in poi, la cosa per sempre disponibile. 

Le cose evidentemente non stanno mai così, giacché ciò che è realizzato, paradossalmente, per noi, cessa di esistere proprio in quanto compiuto. Inoltre, la possibilità è reale, e indipendente dalla realizzazione, perché la realtà funziona in modo tale per cui ciò che è realizzato può subire una derealizzazione sulla base della quale la «cosa» non è più pensabile come irrealizzato da realizzare, ma in quanto già stata realizzata, è gettata nuovamente nell’ambito reale del possibile. 

Parimenti, se si considera l’esistenza come passaggio all’essere di un’essenza, s’introduce la temporalità dell’esistente, e con essa il passaggio all’essere senza medialità, che fa credere potenza ed atto due momenti dell’unico processo di realizzazione di qualcosa, anziché come due condizioni autonome mediate da un terzo termine, che rende possibile l’apparire della «cosa». Siccome la cosa appare, e non nel modo macchinoso di un unico processo definito e definitivo, allora deve esserci qualcosa per cui, volta in volta, viene ad essere.

Ma qual è questo «terzo termine» che, una volta esclusa la macchinosità procedurale responsabile dell’appiattimento della possibilità sull’irrealizzato, garantisce la medialità, giacché l’esserci della cosa è innegabile, così come innegabile è l’attività conoscitiva di essa da parte del soggetto?

Sul piano gnoseologico – suggerisce Agamben – il «terzo» è l’auto-affezione con assenza di sensazione, la conoscenza della pura conoscibilità del soggetto senza oggetto; sul piano dell’essere, è la pura apparenza vuota dell’apparire. In termini kantiani, una ricettività vuota di oggetti, e una fenomenicità dell’apparire antecedente all’apparenza oggettuale dell’esperienza sensibile. 

Forse, l’operazione filosofica più delicata e controversa, e anche però la più importante del libro, risiede nella particolare esegesi della chora presentata da Agamben, al termine di una dettagliata rassegna esegetica, da Calcidio ai commentatori contemporanei. 

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Agamben, in L’irrealizzabile, avanza l’ipotesi per cui nella concezione platonica della chora vi sarebbe un’anticipazione della nozione aristotelica di steresis e, perciò, l’origine della adynamia. E anzi, giunge a sostenere che Aristotele, per l’introduzione della «privazione» a fianco alla materia e allo spazio come principi della sua Fisica, sarebbe stato influenzato proprio dalla trattazione platonica della chora nel Timeo

Senz’altro degna della massima considerazione e stima teoretica, è anche la raffinatissima comparazione che, da ciò, conduce Agamben a «scoprire» una affinità inedita tra Platone e Kant. L’affinità in questione, su cui occorre riflettere, e di cui è impossibile fornire qui anche solo una sintesi, è inedita in un senso preciso.

Agamben riesce, rispetto a un comune tema di fondo – la spazialità – ad individuare un nuovo nesso tra Platone e Kant, che non concerne direttamente un accostamento tra l’onto-epistemologia platonica e la teoria della conoscenza delle Critiche kantiane. Perciò, Agamben «scopre» un legame filosofico tra Platone e Kant diverso rispetto al tentativo di rileggere l’onto-epistemologia platonica alla luce dell’idealismo trascendentale, sviluppato da Hermann Cohen e da Paul Natorp

La Erscheinung einer Erscheinung (introdotta da Kant nell’Opus postumum) e la peculiare interpretazione agambeniana della chora del Timeo come apertura spaziale percepibile met’anaisthesias (sentire con assenza di sensazione), indicherebbero entrambe la condizione auto-affettiva quale situazione esistenziale e conoscitiva preliminare, in cui il soggetto conoscente si apre all’apparenza della cosa, prima di qualsiasi interazione con un dato oggetto dell’esperienza (immaginare l’apparenza senza oggetti). 

La kantiana intuizione dello spazio vuoto come autoaffezione della conoscibilità del soggetto, sarebbe l’a priori sia ontologico che gnoseologico-sensoriale (sia del fenomeno stesso dell’apparenza, sia della conoscenza sensibile), e questa sarebbe la funzione spaziale, distinta sia dalla materia sia dal luogo corporeo, svolta dalla chora del Timeo. Un accostamento che, sul piano teoretico e storico-filosofico, è talmente recondito e inusitato da avere, forse con qualche perplessità, anche la cogenza sufficiente perlomeno da indurre ad interrogarsi sulla funzione onto-gnoseologica della vacuità spaziale nella concezione platonica del cosmo sensibile (oggi gli studi sul Timeo, peraltro, sono più vivi che mai). 

Suscita interesse, a questo proposito, anche la tesi della relazione tra l’idea del Bene e la chora, per cui la conoscibilità di qualcosa è nel «medio spaziale» di un sensibile intellegibile e di un intellegibile sensibile: simbolicamente il Sole nella chora, nell’apertura spaziale del suo apparire sensibile (sorta di Lichtung heideggeriana). Non a caso, a questa interpretazione Agamben fa seguire la frase: «la vera politica è una chorologia».

La vera politica è chorologia e solo in quanto tale è dell’ontologia. Si tratta di pensare non qualcosa come già presente, ma sempre ogni volta soltanto il «come» della possibilità nel suo effetto annichilente di ogni già realizzato: il «come» dell’apparire del nuovo, l’azione della possibilità che disfa ciò che ci sembra realizzato, è la vera politica, cioè l’ontologia reale. 

Politica dell’ontologia 

La comprensione di questa tesi, così ermetica in L’irrealizzabile, resta perfettamente preclusa al lettore, finché che egli non svolge un’operazione ermeneutica alla luce dell’intera trattazione. In estrema sintesi, possiamo così chiarificarla: la politica è nient’altro che apertura del soggetto all’apparire stesso, che precede il mondo fenomenico come eterna realizzazione del possibile, mantenuto come tale, nell’annichilimento del realizzato. Ciò è quel che Agamben intende con la chora platonica, cioè con l’autoaffezione della ricettività vuota dell’apparenza stessa della soggettività. L’ «aver luogo» dell’essere dell’ente e della conoscibilità stessa, ancora senza enti, fenomeni, e pensieri particolari, perciò, precedenti ad una ontologia e ad una epistemologia in quanto riferimento ricettivo degli enti, fondano entrambe. 

È la prospettiva che considera potenza e atto «senza passaggio», nel modo co-originario e indipendente della vera struttura ontologica che riscopre il tertium, la base da cui giunge la stoccata di Agamben alla tendenza in cui oggi si concepisce la realtà, secondo lo schema della macchina ontologico-politica dell’Occidente. Le forze e le istituzioni che dovrebbero garantire la realizzazione delle possibilità, oggi contribuiscono alla dissoluzione costante di ciò che viene realizzato. E in un sistema per cui ogni possibilità è inoculata nel passaggio all’atto, prefigurato in modo deterministico, tutto è facilmente manipolabile e pilotabile. Inoltre, siccome quel che oggi si realizza non tende, tuttavia, ad uno scopo finale che possa realmente essere prestabilito, l’idea dura a morire di un controllo esteso e regolato della realtà, concepita come realizzato e realizzabile, è illusoria, perché – come vediamo ogni giorno a tutti i livelli – è inattuabile. 

La critica di Agamben in L’irrealizzabile è tanto lucida quanto amara e severa, esprime biasimo e desiderio di ripresa da una situazione politica ed etica deteriore. A questa ripresa è votato l’apparato filosofico impiegato dal filosofo per produrre la propria teoria sul ripensamento di potenza-atto, essenza-esistenza, la quale intende essere il cortocircuito nel cuore della macchina ontologico-politica dell’Occidente, che conduca a ripensare completamente la politica sul piano ontologico e conoscitivo. 

Agamben ci informa che la questione del mal governo della realtà non dipende da una cattiva amministrazione politica, bensì dal tentativo macchinoso di fare l’impossibile (in senso letterale), ovvero negare la reciproca autonomia di possibilità e realtà, che equivale a fraintendere la vera struttura ontologica, pensando al reale come processo di realizzazione di possibilità, senza considerare l’autonomia incancellabile della possibilità stessa come impossibilità di realizzazione, cioè come l’irrealizzabile. 

Ragionando ed operando in questo modo si resta sempre distanti dalla vera politica. 

«Politica dell’ontologia», possiamo quindi concludere, è un genitivo oggettivo, nel senso per cui l’ontologia intesa come realtà, costituta anzitutto dallo spazio mediale dell’apparire della possibilità che mai si realizza e rimane come resto inesauribile e inalienabile, è la condizione ontologica della vera politica. 

Di conseguenza, la vera politica scaturisce direttamente dall’effettiva struttura ontologica della realtà: laddove questa è fraintesa (come nella macchina ontologico-politica dell’Occidente) si avrà falsa politica; allorché, invece, la realtà è compresa nel suo essere autentico, non artificioso, ingegneristico, e dogmatico (passaggio da potenza ad atto, trasposizione retrospettiva dell’essenza passata nell’esistenza presente), allora vi sarà la vera politica. In tal modo si riesce ad osservare anzitutto l’apertura della «manifestabilità» delle cose, l’autopercezione della spazialità del soggetto immaginata prima di ogni cosa, gesto, e riflessione, ovvero quella fenditura che apre qualunque soggetto umano alla disponibilità verso il «come» di azioni e pensieri sulla concretezza reale in senso proprio, e non macchinoso. 

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Agamben in L’irrealizzabile individua la via attraverso la quale un soggetto cittadino moderno riesce a comprendere la correlazione intrinseca tra politica, conoscenza ed ontologia, mediante la quale ciascuno comprende la realtà, rendendosi davvero capace di operare politicamente. Questa via dovrebbe essere quella in cui si riesce a percorrere l’aspirazione democratica della partecipazione totale dei soggetti-cittadini alla vita politica. Poiché, per questa via, l’essere umano diviene realmente lo zoon politikon

Come appare chiaro nelle ultime pagine di L’irrealizzabile, per Agamben ciò che «ancora e sempre» concerne il pensiero non è né rispondere alla domanda sull’essere, né a quella su che cos’è le sostanza, ma concentrarsi sull’apparenza in quanto medialità, sul «come», sia della conoscibilità del soggetto, sia dell’ente nella sua apertura all’essere: non conoscere il «cosa» ma il «come» dell’apparire. E ciò è possibile solo rimuovendo l’oscurantismo del passaggio ontologico «immediato» tra irrealizzato e realizzato, spazio e corpo, ente e pensiero, riscoprendo la mediazione dell’apertura dell’apparire e della conoscibilità, cioè la vera possibilità, l’aver luogo di ciò che di per sé resta sempre senza realizzazione – l’irrealizzabile

Agamben in L’irrealizzabile porta così a compimento la propria decostruzione e reinterpretazione di quelle che, a suo avviso, sono le categorie metafisiche dell’ontologia politica occidentale (potenza e atto, possibilità e realtà, essenza ed esistenza) conferendo loro un assetto teoretico e pratico preciso, che conduce alla comprensione della connessione originaria tra reale struttura ontologica, conoscenza trascendentale, e vera politica.

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Lorenzo Pampanini

Classe 1994. Laureato in Scienze Filosofiche all'Università La Sapienza di Roma.

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