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La guerra ci fa riflettere sui bisogni primari dell’uomo

La guerra in Ucraina ci porta a riflettere non solo su complesse dinamiche geopolitiche, strutture economiche, modelli di governo e ideali, ma anche, antropologicamente, sull’uomo stesso in quanto tale.

5 minuti di lettura

Fino a poco tempo fa, l’idea di una guerra nel territorio europeo sarebbe stata giudicata, dai più, come generalmente impensabile. Eppure, un estremo clima conflittuale era già stato intensamente preannunciato. Ma non si tratta esclusivamente di paure, timori, del tabù della guerra che sfocia nell’incredulità quando essa compare, ancor di più se con simile veemenza. Nemmeno, sarebbe legittimo limitarsi ad una sottovalutazione iniziale delle questioni irrisolte tra le due nazioni, principio che vale fondamentalmente nelle relazioni politiche e diplomatiche, ma che non offre elementi utili per una determinazione della reazione civile. È altresì banale affermare che la principale preoccupazione del singolo, quando giunge la guerra, è l’apparire angosciante della morte. Per tale motivo, la minaccia alla vita determinata dall’invasione Russa richiede di concentrarsi non solo su complesse dinamiche geopolitiche, strutture economiche, modelli di governo e ideali, ma anche, antropologicamente, sull’uomo stesso in quanto tale.

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Si tratta di stabilire una gerarchia di priorità che si configuri adeguata all’inquietante scenario attuale, in cui prima di qualsiasi altro fattore si miri alla salvaguardia del valore della vita. Quest’ultima, difatti, si colloca insieme alla libertà come uno dei principi fondanti della nostra democrazia. E mai come oggi i due concetti sono legati quanto distanti, valorizzati dall’opinione pubblica e contemporaneamente caduti in una tetra e rigida contesa, tra chi opta per ridurre le perdite di vite umane e chi vuole opporsi ad ogni costo al manifestarsi di un potere dittatoriale.

A tal proposito, è paradigmatica la forte posizione recentemente qualche tempo fa dal criticatissimo (spesso amato o odiato) Alessandro Orsiniche nella trasmissione Cartabianca in onda su Rai3, ha affermato: «Io non ragiono in un’ottica politica ma umanitaria. Preferirei vedere i bambini crescere in una dittatura che morire per le bombe». 

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È dunque preferibile la vita alla libertà? Molti ucraini non risponderebbero positivamente al quesito, come le migliaia di civili che hanno scelto di difendere la nazione con l’ausilio delle armi. A questi, seppur indirettamente, si aggiunge il sostegno dei Paesi (compresa l’Italia) che hanno deciso di donare molti di questi armamenti. Ma se le armi incentivassero il conflitto, alimentando la spirale di violenza? Se fosse così, bisognerebbe riflettere sull’effettivo scopo che in quanto esseri umani, prima ancora che membri della NATO, dovremmo perseguire: l’ottenimento della pace. L’augurio, è che gli organismi internazionali decidano di non sacrificare il valore della vita umana sottomettendolo ad altro, che sia il disumanizzante interesse economico nelle dinamiche di competizione (i dubbi sulla posizione statunitense spaventano) o, perfino, i più autentici ideali. La situazione attuale rende pericolosamente difficile l’utilizzo della razionalità, in un contesto generale in cui l’emozionalità regna. In tutto ciò, la maggiore preoccupazione a livello internazionale resta l’allargamento del conflitto. Per questa ragione, se le armi restano in un precario e discutibile equilibrio fra il sostegno che possiamo dare alla libertà ucraina e il pericolo di un’estensione della guerra, la ribadente quanto frustrante richiesta di una no-fly zone si rivela inaccettabile. La creazione di quest’ultima potrebbe coincidere con una terribile moltiplicazione dei crimini odierni, contornata dalla terrificante paura del nucleare. E se il diritto alla vita e alla sua difesa, altrimenti detto principio di autoconservazione, è il fondamento dell’uomo, incrementare il numero di morti significherebbe tradirlo e con esso negare qualsiasi altra categoria concettuale, che sia la libertà, l’uguaglianza, il rispetto o l’empatia.

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In un’epoca storica di straordinaria potenza bellica in cui la tecnologia possiede un’impressionante capacità distruttiva, siamo richiamati ad una profonda riflessione, insieme morale e normativa, sui bisogni primari dell’uomo. Tale intento parrebbe non poter prescindere dall’interrogarci sulla definizione della sua identità, nella volontà di scoprire (o ri-scoprire) quell’umanità da cui tendiamo perpetuamente a distanziarci. 

Biagio Gumina

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