La domanda sorge spontanea: sentivamo davvero il bisogno della copertina di Vanity Fair con Vanessa Incontrada che posa nuda, rivendicando l’orgoglio di un corpo non perfetto? E la risposta viene altrettanto spontanea: sì, ne sentivamo davvero il bisogno. Perché sulla questione delle rivendicazioni femminili e sulla libertà delle donne non è mai abbastanza ciò che si pensa, ciò che si fa, ciò che si dice e ciò che si professa.
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Perché al di là delle storie che si possono raccontare nei salotti della televisione, la nostra è ancora una società involuta in cui è necessario manifestare la propria libertà, finanche sbatterla sulla copertina di una rivista che per anni ha promosso un ideale di bellezza fortemente negli schemi che adesso, cavalcando l’onda del momento, vuole contestare.
Però, se questo può essere un mezzo per arrivare all’obiettivo finale, che lo sia davvero, nel senso più machiavellico dell’atto.
Essere donne in una società patriarcale
Ad oggi, purtroppo, le donne si trovano ancora nelle condizioni di dover trovare strade per esprimere il loro parere, il loro punto di vista sulla vita, di dover faticare a farsi chiamare ministra piuttosto che ministro, sindaca piuttosto che sindaco, di dover giustificare la propria bravura e il raggiungimento di un risultato o di una posizione di potere rispetto ai detrattori che infangano la loro reputazione, sostenendo che “sicuramente” sono state l’amante di quel leader politico o, peggio ancora, la “mantenuta” del proprio datore di lavoro.
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La nostra è ancora quella società patriarcale in cui non puoi tornare a casa da sola di notte senza il rischio che ti accada qualcosa di brutto, che se indossi una minigonna in realtà “te la sei andata a cercare”, che se il capo ti poggia la mano sul fianco in segno, come direbbe lui “di affetto e stima”, in realtà non sta facendo nulla di male. Chiacchiere e ancora chiacchiere infarcite di chiacchiere. Sono i retaggi di una società maschile da cui abbiamo ancora un’enorme difficoltà a venir fuori.
L’inizio di una rivoluzione?
Il corpo di Vanessa Incontrada sulla copertina di Vanity Fair, quindi, rappresenta una sterzata, a modo suo, a questo modello vetusto di bellezza da passerella. Ma, diciamolo francamente, nonostante i presupposti chili in più che il corpo di Vanessa Incontrada avrebbe secondo i canoni, è bello perché è armonico. Immaginiamo che sfida sarebbe quella di mettere in copertina su una di quelle storiche riviste di glam femminile stile anni Novanta, un corpo “brutto”, ovvero un corpo davvero fuori dagli schemi. Dopotutto le minoranze non sono specie umane in via di estinzione e, quindi, da proteggere, ma cercano semplicemente spazi di esistenza.
La foto di Vanessa Incontrada apre una strada che, ci auguriamo, si possa allargare presto, ma non rappresenta una rivoluzione: è solo una prova iniziale di cosa succederebbe se si alzasse un attimo il tiro e se addirittura si tentasse di spostare l’attenzione dal corpo.
Andare a ridefinire il nostro ideale di bellezza, cercando una bellezza che possa includere altri tipi di bellezza rispetto a quelli dei canoni precedenti, puntando così ad una bellezza inclusiva, non è altro che il sintomo di una società per cui il corpo è ancora molto, troppo importante.
Donna e donne: dall’ideologia alla prova di esistenza
Perché sul corpo si iscrive l’ideologia, ovvero quel programma sociale che ci determina linguisticamente e fisicamente, come esseri umani singoli e in relazione in un contesto sociale.
Come sostiene Butler in “Vite precarie” (2004, 46):
Possiamo combattere per i diritti dei nostri corpi, ma gli stessi corpi per i quali combattiamo non sono quasi mai solo nostri. Il corpo ha una sua imprescindibile dimensione pubblica. Il mio corpo strutturato nella sfera pubblica, è e non è mio. Consegnato sin dall’inizio al mondo degli altri, esso porta con sé la loro traccia, si è formato nel crogiolo della vita sociale; solo in un secondo momento, e con qualche incertezza, posso rivendicare il mio corpo in quanto mio, ammesso mi sia mai possibile.
Il punto è proprio questo, esattamente come lo esprime magistralmente Butler: il nostro corpo non è mai solo nostro, perché nasce, cresce e si sviluppa all’interno di una rete di relazioni sociali che gli lasciano delle tracce indelebili con cui il corpo e il soggetto dovrà sempre fare i conti. Il corpo è anche materia politica, perché attraverso il corpo del singolo che si unisce a corpi di altri singoli costituendo il corpo sociale, vengono dettate tendenze, mode, stili di vita. Se oggi è possibile vedere una donna “non magra” sulla copertine di una rivista glam, che ha dettato legge in materia di taglia 38 e di magrezza ad ogni costo, vuol dire che l’aria sta cambiando davvero e che questo è solo il principio di una rivoluzione che viene già definita dalla body positivity, ovvero del cominciare a pensare positivo rispetto al proprio corpo, a prescindere da come sia, se risponda o meno a dei modelli, cogliendone la sua intima bellezza.
Dalla body positivity alla body neutrality
Inoltre, come auspica Anne Poirer, coach americana, nel corso di un’intervista proprio a Vanity Fair condotta da Alice Politi in data 30 settembre 2020, sarebbe bello arrivare alla cosiddetta body neutrality, ovvero alla de-significazione del corpo, in un mondo e in una società dove il corpo non è più considerato “importante” e denaturandolo di quella stessa importanza attribuitagli in secoli di storia, anche l’ideologia lo abbandonerebbe come strumento veicolo di significati carichi sul piano politico, sociale e culturale.
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Dopotutto il corpo è lo strumento che la natura ci ha dato per conoscere la realtà, ma con il tempo è diventato il suo opposto, ovvero uno strumento della realtà per veicolare comportamenti, gusti, scelte. Conduciamo questa rivoluzione, ma cominciamo a farlo davvero. Intanto, grazie Vanessa.
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