Un quadro di Manet. Una danzatrice. Una Josephine Baker dalle zampe di fauno al posto dei piedi. Sono queste le identità artistiche che Vera Mantero, artista portoghese, porta in scena alla 22° edizione del Festival Inequilibrio, esibendosi in un trittico di performance al Teatro Solvay. La fluidità dell’arte non è un concetto tanto scontato. Riuscire a separarsi dalle proprie origini artistiche, portando sempre con sé il proprio bagaglio di esperienza, è un atto di coraggio che non tutti gli artisti osano compiere. Vera Mantero ha portato la danza in una dimensione più vasta, fatta di performance libere dalle imposizioni delle categorie. Così, in un gioco di simbolismo l’artista porta in scena l’intimità, ma anche denunce sociali e culturali, filtrate da una prospettiva inusuale e d’impatto.
L’intervista a Vera Mantero
Qui al Festival Inequilibrio Lei porta in scena un trittico di performance concepite separatamente. C’è un filo logico che le lega?
Le performance che porto in scena sono state ideate in anni diversi e separatamente. Ma il pubblico, nel vederle in sequenza, può comunque cogliere una logica. Nella prima (One mysterious thing, said e.e. cummings) c’è un’idea di non riuscita, di catastrofe che si coglie nelle parole che pronuncio. Nella seconda (What can be said about Pierre) si può vedere questo discorso reso nel corpo. Nella terza (Olympia) viene letto un passo di Debuffet in cui parla dell’impossibilità della cultura, della sua visione in una prospettiva catastrofica e viene mostrata la figura di Olympia (personaggio ritratto da Manet nell’omonimo dipinto, ndr) che si decostruisce.
In One Mysterius Thing, said e.e. cummings c’è la figura di Josephine Baker. Cosa rappresenta per Lei?
L’omaggio a Josephine Baker è stata una proposta nell’ambito di un progetto di omaggio a vari artisti. A me la sua figura è stata proposta, non l’ho scelta personalmente. Ma è stata una cosa positiva. Mi piace che mi propongano cose, in caso contrario non avrei mai concepito una performance del genere.
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In Olympia viene rappresentata una ribellione del corpo al potere. Come si può manifestare questa ribellione in un mondo dove spesso il corpo viene mercificato, talvolta nell’arte stessa?
Non so se ho la capacità di contrappormi a questa idea di mercificazione del corpo. Spesso lavoro sull’idea dell’assurdo del corpo e dell’incontrare l’assurdo dentro il corpo. L’assurdo non è propriamente una cosa che può essere mercificata, essendo una cosa che risulterebbe poco appetibile. Tutta questa situazione, quella di insistere sull’assurdo che non è appetibile, è un po’ il mio modo di lottare contro questa mercificazione: il mio modo di ribellarmi è quello di decostruire il corpo e lavorare sull’assurdo del corpo stesso.
In What can be said about Pierre qual è il messaggio della performance?
La performance si basa su un discorso di Deleuze che tiene una lezione su Spinoza. In questa lezione affronta diverse tematiche della filosofia di Spinoza, sulla sua concezione dei tre livelli di conoscenza, secondo cui tutti noi rimaniamo soltanto nel primo livello. Ma Deleuze in questa lezione inizia a improvvisare e arriva a pensare che le persone possano arrivare anche agli altri due livelli di conoscenza.
Lei è un’artista che non ha limiti dettati da categorie. È coreografa, ballerina, artista visiva. C’è ancora nel mondo dell’arte un pregiudizio verso chi fa una performance pan-artistica, ossia che tocca varie branche dell’arte stessa?
Mmm… no. È un tipo di attività che viene già fatta da molti anni. Non sento che questo, nel mondo dell’arte, avvenga ancora.
L’intervista è apparsa originariamente sul blog di Armunia, associazione organizzatrice del Festival Inequilibrio.
Foto di Daniele Laorenza.
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