Fu un uomo schivo, Vincenzo Cardarelli (pseudonimo di Nazareno Cardarelli). Schivo perché solo, immerso nel suo mondo fatto sì di fisicità e materia, ma labile e fantasmatico, perché sempre ammantato nell’involucro del ricordo, corretto e fantasticato a piacimento. La sua esistenza fu complicata fin dall’inizio: problemi fisici e l’abbandono della madre minarono i primi anni di vita, e il rapporto conflittuale con il padre determinò un isolamento che il poeta alimentò specialmente con la sua produzione artistica.
Il dolore per l’assenza della figura materna attraversa tutta l’opera di Cardarelli, simile più ad una lenta e malinconica salmodia che al bruciore di una vampa: l’evento è stato elaborato, e la sofferenza non esplode mai disordinatamente, ma si limita a corrodere l’intimo con una compostezza stremante. È triste che per dare frutti di simile bellezza Cardarelli debba aver sofferto tanto: è il genere di fiori che nasce nel deserto della depressione. Nella lirica Crudele addio strazia veramente il cuore pensare al bambino solo, preso in giro dai coetanei (come già detto, soffriva anche di una malformazione alla mano): «E non fo che cercarti, non aspetto / che il tuo ritorno».
Questo ricercare non si configura però come movimento, non siamo di fronte ad una sfortunata “Odissea” degli affetti: qui l’assenza della figura femminile di riferimento non è mai mitigata da una ricerca attiva, non è scomposta e forsennata, e così la mancanza finisce per creare un vuoto di cui è possibile solo constatare la profondità con rassegnata mestizia, con l’inquietudine di chi è costretto a «vivere / balendando in burrasca».
La solitudine di Vincenzo Cardarelli iniziò quindi a rivelarsi totale fin dall’infanzia, e proseguì per tutta la vita: accanto alla madre sfilano le figure di quelle donne che negli anni maturi posero fine ai loro legami con il poeta, legami di amore fulmineo, squassante nella sua potenza, per via del bisogno d’affetto, enorme, dello scrittore.
Le relazioni che Cardarelli ebbe non furono né molte né di lunga durata, non certo per colpa sua, e delle donne che amò, motivo l’affranta riservatezza dell’uomo, spesso non si conosce nemmeno il nome: esse sono figure evanescenti, che riaffiorano quasi involontariamente (come le proustiane medeleines) in versi ora altamente lirici, ora tersi e lineari. L’unica, celeberrima, di cui sappiamo abbastanza è Sibilla Aleramo, già incantatrice del folle marradese Dino Campana, autore di quei Canti Orfici che sono un capolavoro assoluto della poesia italiana novecentesca.
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La Aleramo, definita da Giuseppe Prezzolini «lavatoio sessuale della cultura italiana», era troppo differente dal timido Cardarelli, così spregiudicata ed eccessiva, perché il rapporto fra i due non si incrinasse in brevissimo tempo. Ed infatti così avvenne: la separazione fu dolorosa solo per Vincenzo, dal momento che Sibilla sapeva come “consolarsi”, e lasciò una cicatrice insanabile nei suoi versi, che quando traggono spunto da questa situazione o da altre simili toccano apici di sincerità, purezza, comunione col lettore difficilmente rintracciabili in autori differenti.
Fra le più belle di sempre, le poesie d’amore di Vincenzo Cardarelli sono dunque intrise di uno struggimento autunnale, dove il senso desolante della fine si mescola all’amarezza per la delusione di promesse, giuramenti. «Dovevamo saperlo che l’amore/brucia la vita e fa volare il tempo»: versi del genere rivelano il fallimento di chi, scommettendo sull’amore inteso quasi come fonte di riscatto, si ritrova invece a piangere stringendo il cuscino, ancora una volta in solitudine. In questa conclusione di Passato c’è un precipitare che disorienta e distrugge, quasi che l’amore debba necessariamente essere fagocitato dallo spietato Crono, gettando l’umanità nella disperazione dell’isolamento.
La fragilità di Cardarelli non lo ha mai reso pronto a fronteggiare una delusione sentimentale senza irrimediabilmente schiantarsi a terra, la sua vita errabonda, solitaria, era una condanna ingiusta e pesantissima, e avrebbe meritato un po’ di compagnia. E invece il viterbese fu sempre sferzato dallo spettro gelido del rifiuto, del «commiato»: la nevrosi patologica di cui era vittima, e che si aggravò negli ultimi anni, giungeva a manifestargli, in Amore, i presagi di una separazione anche nei saluti di arrivederci che egli scambiava con l’amata: «Ogni giorno ti perdo e ti ritrovo / così, senza speranza. / Se tu sapessi com’è già remoto / il ricordo dei baci / che poco fa mi davi, / di quel caro abbandono, / di quel folle tuo amore ov’io non mordo / se sapore di morte”.
Il terrore di essere lasciato solo, la fobia del non sentirsi adatti a chi si crede perfetto, il crollo di ogni prospettiva di felicità: se c’è un poeta che ha saputo descrivere più di tutti, con uno stile luminoso e raffinatissimo, le ferite dell’amore perduto, questo è senza ombra di dubbio quell’anima triste di Vincenzo Cardarelli. Mai nessuno come lui ha saputo raccontare con tanta nitidezza, con tanta efficacia di lirismo e d’immagini, la confusione di quanti vedono finire, per una decisione altrui, la propria storia: bastano i due versi finali di Attesa per fornire un esempio perfetto del contrasto catulliano fra amore e odio. «Amore, amore, come sempre, / vorrei coprirti di fiori e d’insulti». Fiori ed insulti, speranza e sfinimento, gioia e costernazione. In due versi un mondo indicibile e delicatissimo. Ma per Vincenzo la delicatezza era un modo naturale di vivere e di descrivere anche il lato carnale dell’amore, la sessualità. La quale, come nella splendida Adolescente, resta inappagata, senza mai però straripare in una pulsione violenta, anzi disfacendosi gradualmente nella propria impossibilità: il corpo di una fanciulla “vergine”, destinato ad altri, è ad esempio simbolo potentissimo di tale inattuabilità, pessimisticamente elevata a livelli universali.
L’amore è qualcosa di tagliente per tutti, quindi, ma soprattutto per il nostro scrittore, che non a caso si rivolge all’adolescente che scopre il corpo constatando, con la dolenza di chi ne ha passate tante: «Tu ti darai, tu ti perderai». Infatti, una volta conosciuto e scandagliato fin nei suoi anfratti più devastanti, questo sentimento non ha più lasciato scampo al poeta, si è preso gioco della sua sensibilità per poi lasciarlo agonizzante in balia dei «lugubri e durevoli ricordi, […] fantasmi agitati da un vento funebre». E purtroppo il vento funebre lo colse nella più totale solitudine, come la vita.
Michele Donati
Immagine di copertina: commons.wikimedia.org
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[…] Il suo nome deriva dal latino “Manium arula”, tempio dedicato ai Mani. Manarola ha una splendida passeggiata a picco sul mare che permette la vista completa delle case arroccate sullo sperone di roccia, del porticciolo e del fiume che si tuffa nell’acqua salata. Al centro del paese la piazza, in cui sono situati gli edifici religiosi, ospita i turisti in cerca di ombra e refrigerio durante il caldo estivo. Per gli amanti dei tuffi gli scogli di fronte al porto sono l’ideale. Vale la pena poi salire fino al piccolo cimitero per il meraviglioso panorama visibile da quell’altezza, qui rivolti verso il mare alcuni versi del poeta Vincenzo Cardarelli. […]