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La dura vita di un vestito (nell’epoca dell’ultra fast fashion)

dalla newsletter n. 20 - Settembre 2022 di Frammenti Rivista

5 minuti di lettura

Il 31 maggio 2021 il Post pubblica sul suo sito un articolo dal titolo La misteriosa app di shopping che ha battuto Amazon. Il Post – che è uno dei giornali simbolo del cosiddetto buon giornalismo, diventato celebre per “spiegare bene le cose” – questa volta toppa sul titolo: di misterioso quell’app non ha assolutamente niente. Si chiama Shein e non c’è esponente della Generazione Z che non la conosca. Si tratta di una piattaforma online di fast fashion cinese fondata nel 2008. Obiettivo del colosso asiatico, rendere quella moda “mordi e fuggi” che da decenni si è fatta strada nella vita di tutti i consumatori occidentali in un’ultra fast fashion, dove i capi di abbigliamento costano pochissimo e invece di durare una stagione durano una giornata, o poco più. Con prezzi più che competitivi, a tratti irrealistici (ci sono fior fiori di articoli sul trattamento dei suoi lavoratori, le condizioni sanitarie dei posti di lavoro, la qualità scadente dei materiali, che permettono che il prezzo rimanga tale), Shein ha fatto numeri da record – 10 miliardi di dollari di vendite registrate nel 2020 – andando ad intercettare un’esigenza simbolo della nostra epoca: apparire sempre all’ultimo grido risparmiando fino all’osso.

È questo, in breve, il fast fashion, o nel più spinto di casi l’ultra fast fashion, una tendenza a portare le mode dalle passerelle ai consumatori a prezzi accessibili a tutti, spesso abbattendo i costi sui materiali o sulla manodopera. Niente di eccessivamente nuovo per la nostra società che ormai da decenni si è abituata ad avere prodotti di bassa-media qualità su ogni fronte ricercando il prezzo più vantaggioso. Presumibilmente ognuno di noi ha nel proprio armadio almeno un capo tra Zara, H&M o Bershka, alcuni dei brand che su questo tipo di moda a consumo hanno scommesso e ci hanno fatto una fortuna.

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Il fenomeno del fast fashion in questi ultimi anni però ha premuto il piede sull’acceleratore. Nuovi marchi e nuove piattaforme digitali si sono fatte spazio con forza soprattutto durante la pandemia, mettendo in secondo piano colossi che da anni detengono un’ampia fetta di mercato. Shein, che è celeberrimo nel mondo dei giovani di TikTok, è stato messo a confronto con Zara, ad esempio, in una battaglia a colpi di (milioni di) tweet, in cui la casa di moda spagnola è stata accusata di aver prezzi eccessivi per vestiti pressoché identici a quelli prodotti dal concorrente cinese. Shein (parliamo del più noto, ma di piattaforme simili ce ne sono a decine come Rosegal, Dresslily, Zaful) dal suo ha anche l’aver abbattuto costi sui negozi fisici: ha solo l’e-commerce online e su quello ha puntato, tagliando i costi su store e personale. Ne deriva un investimento quasi esclusivo sulla produzione: secondo le dichiarazioni dell’azienda stessa, riuscirebbe a produrre circa 500 capi nuovi al giorno.

Seppur il fast fashion attiri i giovani e giovanissimi come nettare per le api, contribuendo a generare anche trend virali sui social media, l’altra faccia della medaglia inizia ad essere difficile da ignorare, e si scontra con un’altra rivendicazione che fa breccia nel cuore della Generazione Z: il tema dell’impatto ambientale. Riferimento giornalistico sul tema è il brillante articolo di Elizabeth Cline, Where Does Discarded Clothing Go?, letteralmente Dove vanno a finire i vestiti che buttiamo?. Ricostruendo come i troppi capi d’abbigliamento siano diventati un dramma in città come New York (ed è solo il 2014) e come il loro riciclo non sia un’operazione così trasparente, la Cline scrive: «In città, abbigliamento e tessuti rappresentano oltre il 6% di tutta la spazzatura,…

Agnese Zappalà

Classe 1993. Ho studiato musica classica, storia e scienze politiche. Oggi sono giornalista pubblicista a Monza. Vicedirettrice di Frammenti Rivista. Aspirante Nora Ephron.

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