L’arte e la Chiesa per secoli sono state legate da un rapporto indissolubile che ha avuto il suo culmine nel mecenatismo papale in epoca rinascimentale e barocca.
Questo prolifico rapporto, che ha generato importantissimi sodalizi come quello tra Papa Giulio II e Raffello e tra Urbano VIII e il Bernini, ha contribuito a determinare l’assetto urbanistico e artistico di Roma, simbolo della potenza e munificenza papale.
Tuttavia, per quanto fecondo, il secolare dialogo tra arte e chiesa è stato costellato da scandali e reciproche incomprensioni, generate sia dalle intemperanze degli artisti sia dalla volontà dei pontefici di irreggimentare il genio artistico, epurandolo da stravaganze e zone d’ombra.
Dal famoso intervento censorio sui nudi michelangioleschi della Cappella Sistina, ripercorriamo alcuni celebri episodi di questo travagliato rapporto, fino ad arrivare alla frattura generata da artisti contemporanei come Andres Serrano e Maurizio Cattelan, spesso finiti sul banco degli imputati con accuse di blasfemia.
Michelangelo, artista libero nella Roma papalina
Tra il 1536 e il 1541 il genio artistico di Michelangelo Buonarroti viene messo alla prova dal prestigioso ma difficilissimo incarico di affrescare la volta della Cappella Sistina con il Giudizio Universale, soggetto tratto dall’Apocalisse.
Il primo committente è Papa Clemente VII, alla nascita Giulio de’ Medici, che assegna all’opera un obiettivo ambizioso, ovvero ergersi come manifesto contro le teorie protestanti che, a partire dall’affissione delle 95 tesi di Martin Lutero nel 1517, avevano scosso le fondamenta del mondo cattolico, dividendo in due la Chiesa e l’Europa.
A Clemente VII subentra Papa Paolo III Farnese, che assisterà alla realizzazione dei quattrocento santi che popolano la volta della Cappella Sistina in una liberissima reinterpretazione del tema iconografico del Giudizio Universale.
Michelangelo scardina ogni regola: non esiste più una suddivisione netta tra salvati e dannati, ma una moltitudine di corpi che si affastellano su uno sfondo blu senza alcun tipo di inquadramento prospettico o architettonico che possa facilitare la lettura della scena. Ma la grande novità introdotta dal Michelangelo risiede soprattutto nella completa nudità delle figure, straordinaria livella di ogni differenza di classe e potere in vita: davanti al giudizio divino siamo tutti uguali.
Durante i cinque anni di indefesso lavoro, Michelangelo ha subito numerosi tentativi di censura, in primis da Biagio da Cesena, maestro cerimoniere pontificio, che gli aveva intimato una immediata vestizione dei Santi, ottenendo come unico risultato di essere incluso nell’affresco nei panni del re dantesco Minosse, nudo e con orecchie asinine, e tormentato da un serpente che da cinque secoli gli attanaglia i genitali.

Durante la sua vita Michelangelo rifiuta categoricamente di scendere a compromessi, difendendo strenuamente l’integrità del proprio lavoro, ma, subito dopo la sua morte nel 1564, il pontefice convoca il pittore Daniele da Volterra -passato alla storia con il poco lusinghiero appellativo di «Braghettone» – per coprire i genitali dei santi con drappi e tessuti, molti dei quali presenti ancora oggi nell’opera.
Caravaggio e l’irriverenza del realismo
Un altro celebre Michelangelo dal carattere irruente e sanguigno è Michelangelo Merisi detto Il Caravaggio, il cui rapporto con la committenza pontificia non fu certo facile.
Apprezzatissimo da alcune personalità illuminate come il Cardinal del Monte, il «cardinal nepote» di Scipione Borghese, l’artista fu anche osteggiato per l’estremo realismo delle opere a carattere religioso, talvolta accusate di volgarità e blasfemia.
Il primo grande screzio tra Caravaggio e la Chiesa vede protagonista la prima versione del San Matteo e l’angelo (1602), una delle tre tele realizzate per la chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, prima committenza pubblica dell’artista.
Il dipinto avrebbe dovuto essere collocato come pala d’altare maggiore ma fu rifiutato dalla Congregazione per via della rappresentazione di San Matteo come un contadino analfabeta la cui mano veniva guidata dall’Angelo nello scrivere i Vangeli. Come ci riporta Giovan Pietro Bellori, autore delle Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti Moderni (1672), nonché biografo del Caravaggio, l’opera fu particolarmente criticata anche per la scelta di rappresentare il santo con le piante dei piedi in primo piano rivolte verso i fedeli in preghiera.
Acquistato dal marchese Vincenzo Giustiniani, ammiratore di Caravaggio, il dipinto fu in seguito acquisito dai Musei di Berlino e fu distrutto da un bombardamento nel 1945.
La seconda versione, attualmente presente nella cappella Contarelli di San Luigi dei Francesi, conformandosi ai canoni dell’epoca, mostra San Matteo, ispirato da un angelo apparso alle sue spalle, intento a scrivere di suo pugno il Vangelo.
Analogo destino ha visto protagonista La morte della Vergine (1605-1606), oggi al Louvre di Parigi. Realizzata per l’altare della Cappella Cherubini in Santa Maria della Scala a Roma, fu aspramente criticata per il feroce realismo nella raffigurazione della figura mariana.

La tela non edulcora la morte della Madre di Cristo rappresentata come «una popolana del rione», per usare le parole dello storico dell’arte Roberto Longhi, ma rivela tutta la bruttura della morte, a partire dal colorito cianotico e dal ventre gonfio della donna, probabilmente ispirata ad una prostituta morta annegata di cui si era parlato nelle cronache nere dell’epoca. Caravaggio, infatti, era solito rappresentare e prendere a modello personaggi del popolo per dare vita alle figure sacre, scandalizzando tutti coloro che si aspettavano una nobilitazione di queste ultime. Su consiglio di Rubens, all’epoca al servizio dei Gonzaga, il dipinto fu acquistato dal Duca di Mantova e successivamente da Carlo I d’Inghilterra, per approdare infine al Louvre, dove è tuttora ammirato da visitatori provenienti da tutto il mondo.
Andreas Serrano e Maurizio Cattelan: uno sguardo alla contemporaneità
Nel corso dei secoli il dialogo tra arte e chiesa è proseguito in maniera altalenante e, sebbene non siano mancati artisti contemporanei che hanno affrontato la tematica religiosa, è innegabile che, a partire dalla Rivoluzione Francese, si sia andata a definire una vera e propria frattura tra arte e religione.
Nonostante l’appello di Papa Paolo VI, il quale, in chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II nel 1965, aveva invitato a dare nuova linfa vitale alla secolare alleanza tra artisti e Chiesa, il dialogo ha faticato a ripartire se non per qualche sporadica eccezione.
Al contrario, numerose opere contemporanee hanno attirato gli strali della Chiesa, fino ad arrivare a vere e proprie accuse di blasfemia, soprattutto tra gli anni Settanta e Ottanta, in cui sono state portate alle estreme conseguenze riflessioni su temi di carattere morale, etico e religioso.
Un esempio lampante di arte considerata blasfema è l’opera fotografica del 1987 di Andreas Serrano, Piss Christ, in grado di accendere e dividere l’opinione pubblica.
L’opera si ascrive perfettamente nel clima artisticamente trasgressivo della New York anni Settanta, e fa parte della serie fotografica Immersions, che vede protagoniste icone della tradizione sacra occidentale, come piccole riproduzioni di Madonne, santi e crocifissi, comprate a buon mercato in bazar e mercatini dell’usato e poi immerse nei fluidi corporei dell’artista.
L’idea di associare i fluidi corporei alle icone religiose ha inevitabilmente scatenato fortissime reazioni negli spettatori, provocando finanche atti di vandalismo, nonché il tentativo da parte dell’Arcivescovo cattolico di Melbourne di impedire l’esposizione pubblica dell’opera.
Non sono tuttavia mancati interventi a sostegno dell’opera da parte dei fautori della libertà d’espressione artistica e, sorprendentemente, anche da personalità del mondo cattolico, che vi hanno visto una riflessione sull’atteggiamento noncurante riservato alla religione cristiana e ai suoi valori in tempi moderni.
Altrettanto provocatoria è la scultura del 1999 dell’artista italiano Maurizio Cattelan, La Nona Ora, il cui bersaglio è l’autorità di Cristo in terra, ovvero Papa Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyla, inesorabilmente abbattuto da un meteorite. L’opera, il cui evocativo titolo fa riferimento alla presunta ora della morte di Cristo, è stata ampiamente criticata dal mondo cattolico, che l’ha interpretata come una parodia goliardica e ridicolizzante della Chiesa.

Non manca chi, al contrario, vi ha letto un elogio della personalità di Wojtyla e della perseveranza dimostrata nel proseguire la sua missione apostolica nonostante la sua malattia debilitante, il morbo di Parkinson, e il terribile attentato a cui era sopravvissuto.
In tempi più recenti Maurizio Cattelan è tornato a confrontarsi con il tema religioso in occasione della prima edizione della rassegna “Cremona Contemporanea-Art Week” svoltasi nel 2023, nel corso della quale sul soffitto del Battistero di San Giovanni Battista è stata collocata l’opera Ego, un coccodrillo tassidermizzato.
Come ha rivelato Rossella Farinotti, curatrice della rassegna, secondo le intenzioni espresse dall’artista il coccodrillo che ascende verso la luce racchiude la tensione alla redenzione, «una condizione di peccato che si esprime in un movimento ascensionale verso una possibile liberazione o redenzione».
L’installazione, pensata appositamente per il Battistero, dialoga con l’ariosa cupola, suggerendo un nuovo modo di intendere il rapporto tra arte contemporanea e chiesa.

Questo articolo fa parte della newsletter n. 48 – marzo 2025 di Frammenti Rivista, riservata agli abbonati al FR Club. Leggi gli altri articoli di questo numero:
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