Chiesa cinema

Svelare il mistero del potere: la Chiesa cattolica nel cinema di Sorrentino e Bellocchio

10 minuti di lettura

Paolo Sorrentino e Marco Bellocchio sono due degli autori italiani che sono stati capaci di restituire attraverso il cinema un ritratto complesso e stratificato della Chiesa cattolica, della sua pervasività nel tessuto storico e sociale italiano, il suo torbido legame con la fede e la spiritualità.

Se Marco Bellocchio, che si definisce «anticlericale per educazione», formula nella sua filmografia un discorso politico che pone al centro l’ipocrisia e le debolezze dell’istituzione cattolica portando avanti allo stesso tempo una riflessione sulla scissione interiore di chi deve fare i conti con la propria fede o con il rifiuto di essa all’interno di un sistema pervasivo e repressivo, Paolo Sorrentino compone un ritratto stravagante della Chiesa che mescola religione, sensualità, potere, sfarzo e folclore. Due modalità diverse, forse addirittura opposte, che agiscono secondo meccanismi diversi, ma con degli elementi di fondo comune: la vertigine dell’assenza, gli impulsi della psiche, la banalità della politica, e il mistero come narrazione da smantellare o preservare.

La spiritualità religiosa evapora nella sensualità perversa di un potere opaco e tentacolare, o si sgretola nelle meschinità di quello stesso potere. Sia Paolo Sorrentino che Marco Bellocchio mettono al centro della loro rappresentazione la Chiesa cattolica come istituzione, ma seguendo un movimento diverso: il primo traccia una traiettoria che parte dall’alto (spesso fermandosi lì), mentre il secondo va quasi sempre dal basso verso l’alto. Marco Bellocchio sviscera l’influenza dell’istituzione ecclesiastica partendo dalle unità più elementari: dall’influenza sull’individuo, sulla famiglia, sulla comunità.

L’eternità a buon mercato ne L’ora di religione

chiesa cinema

Dai ragazzi ribelli del collegio cattolico de Nel nome del padre al processo di beatificazione della madre di Ernesto Picciafuoco ne L’ora di religione, il regista piacentino tratta con un sarcasmo tagliente tutti i modi in cui l’ipocrisia e la corruzione del potere religioso istituzionale si riversa sugli individui dirottandone le esistenze e pervade ogni strato della società.

Il concetto stesso di fede si ridefinisce diventando spazio e strumento politico: da un lato di repressione, dall’altro di riflessione e di potenziale rivolta. L’ora di religione è uno degli esempi più eclatanti di quest’ambivalenza: Ernesto, da sempre non credente e coinvolto suo malgrado nei piani della famiglia di far riconoscere sua madre come santa, è costretto a confrontarsi con il tema delle fede e a trovare una sua modulazione personale e intima con il credere o il non credere, svincolandosi dall’onnipresenza dell’istituzione.

Il ruolo del figlio Lorenzo è significativo in questo senso: le domande del bambino, colpito dagli insegnamenti impartiti durante l’ora di religione, offrono a Ernesto la possibilità di liberarsi dei pesi del passato e di riformulare il suo rapporto con la fede, con l’istituzione, e con il fantasma della madre che nel corpo di santa era diventata una presenza angosciante e al tempo stesso opaca, inconciliabile con la realtà e con i ricordi.

Ne L’ora di religione Marco Bellocchio formula uno degli attacchi più pungenti alla Chiesa moderna e ai suoi seguaci: il processo di beatificazione della madre viene presentato dai Picciafuoco come un mero strumento per ridare prestigio al nome di una famiglia decaduta, preoccupata più dalle apparenze e dai possibili privilegi in ballo che dal confrontare le profonde ferite che ne affliggono le viscere.

«L’eternità è un investimento sicuro» afferma con sicurezza uno dei personaggi: i termini associati alla beatitudine, in un evidente e penoso paradosso, sono tutti pateticamente terreni, ancor peggio transazionali: si parla di assicurazioni per l’aldilà, di investimenti, di interessi, di fama e immagini pubbliche. Il discorso intorno alla santità è epurato di ogni componente spirituale: l’unico a intraprendere in maniera autentica un percorso di riflessione interiore è proprio Ernesto, alieno a tutti i meccanismi che regolano la religione istituzionalizzata.

Il lato oscuro della Chiesa: Rapito di Bellocchio

Anche l’ultima opera di Marco Bellocchio, Rapito, asseconda un movimento simile: il regista parte dalla storia di Edgardo Mortara, bambino sottratto ai genitori ebrei nel 1858 per essere cresciuto in Vaticano. Lo sguardo della cinepresa si muove all’interno dei corridoi maestosi e inquietanti del Vaticano e nelle sale private del Papa, registrando l’imponenza asfissiante di una grande prigione: ma pur non tralasciando una composizione più ricca che riprende il Vaticano ottocentesco in tutto il suo decadente splendore, lo sguardo del regista rimane sempre concentrato sulle vicende umane che si consumano all’interno della struttura di potere.

Assistiamo al mutare del piccolo Mortara sotto l’educazione cattolica impostagli dall’alto e i modi subdoli in cui riesce a plasmarlo e ad assoggettarlo completamente: lo vediamo crescere e prendere i voti sempre sotto la guida del Papa, che diventa una sorta di figura paterna. Ma come ci insegna lo stesso Marco Bellocchio, «bisogna uccidere i nostri padri, le nostre madri»: il rapporto con le figure genitoriali non è mai un rapporto lineare e pacificato, ma nasconde nodi mai sciolti e traumi irrisolti, scuciture e interruzioni.

Nella scena del funerale di Pio IX confluiscono tutte le contraddizioni e le nevrosi che innervano il rapporto con la religione nel cinema di Bellocchio. San Pietro illuminata nella notte alle spalle del corteo funebre: le luci fioche della basilica somigliano a quelle delle fiaccole del popolo che circonda la portantina per gettare la salma del Papa nel Tevere.

Nell’oscurità della notte l’istituzione millenaria prende fuoco: l’ordine del corteo di cardinali e seminaristi viene spezzato da un’energia caotica, impossibile da tenere a freno. Una frenesia che investa anche Edgardo, il quale si unisce al coro dei ribelli contro il papa/padre tiranno: «Ma sì, buttiamo nel Tevere ‘sto Papa. Quel porco! Buttiamolo nel Tevere» urla in maniera scomposta, come se fosse posseduto da una forza esterna che rievoca in modo confuso e incoerente ciò che si nasconde nella psiche frammentata del giovane.

Si parlava della necessità di uccidere i padri per sottrarsi al loro ascendente tirannico: qui il padre tiranno è già morto, «Vere Papa mortuus est», ma questa morte non equivale a nessuna liberazione, anzi. La morte di questa figura ambivalente, figura paterna e carceriere, è qualcosa che Edgardo subisce, un fatto che gli accade: non è l’autore di questa morte, ma, ancora una volta, la vittima.

In quest’ottica la scena del funerale si tinge di tinte ancora più cupe, e l’urlo improvviso di Edgardo da tanto agognata ribellione diventa un ultimo disperato tentativo di prendere in mano le redini della propria vita e di navigare un’identità complessa, frammentata, frutto di un grande trauma seppellito nelle pieghe dell’inconscio.

Rimanendo nei corridoi pontifici, arriviamo alle scene sorrentiniane dove il potere del clero si mostra in tutto il suo abbagliante sfarzo: il regista partenopeo ricalca con la cinepresa tutti gli stilemi visivi che costituiscono l’immagine plurisecolare della Chiesa cattolica e ne amplifica i dettagli più lussuosi e appariscenti.

Dai soffitti decorati da affreschi preziosi ai tessuti pregiati e ben lavorati indossati dai prelati, fino all’imponenza delle stanze vaticane e ai rigogliosi giardini privati dove pochi eletti si aggirano come in un piccolo simulacro di paradiso terrestre: la cura nella riproduzione di un’estetica cattolica dal sapore barocco, oltre a essere una scelta in linea con lo stile di Sorrentino, diventa un veicolo di significato, una costruzione visiva degli elementi che compongono il breviario del potere.

Le architetture del potere: Sorrentino e The Young Pope

Se Marco Bellocchio esplorava i luoghi dove l’influenza centrale del Vaticano estendeva le sue radici, dai collegi cattolici all’intimità delle stesse case, Paolo Sorrentino rimane quasi sempre all’interno del centro del potere, a Roma: quella cinica e decadente de La grande bellezza, con le sue chiese romane che incorniciano il vagare di Jep Gambardella e suore ultracentenarie che si nutrono di radici, o quella che fa capolino nelle serie The Young Pope e The New Pope, dove il nostro sguardo è rinchiuso nei confini del Vaticano e delle macchinazioni politiche che ne regolano gli equilibri.

La differenza e la complementarità degli approcci dei due registi alla religione si rispecchia anche nelle scelte estetiche adottate nella rappresentazione degli spazi maggiormente pervasi dall’influenza cattolica: se da un lato con Bellocchio abbiamo una fotografia essenziale e crepuscolare che restituisce un’atmosfera claustrofobica, nel caso di Paolo Sorrentino prevalgono immagini fastose e opulente che enfatizzano la ricchezza materiale della Chiesa.

L’architettura di The Young Pope è appariscente, barocca, quasi abbagliate nei suoi colori sgargianti e nelle sue linee ampollose: tutto è eccessivo e sopra le righe, a partire dallo stesso Lenny Belardo, il giovane papa interpretato da Jude Law.

La scena della vestizione con I’m sexy and I know it di sottofondo è l’esempio più vistoso di questa sovrabbondanza visiva: l’attenzione è diretta verso le scarpe costose, i gioielli vistosi e i preziosi paramenti papali che Lenny indossa in successione. E infine il triregno arrivato direttamente dall’America, simbolo del potere che il novello Pio XIII eserciterà di lì a poco. La scena della vestizione nel suo essere patinata è pregna di ironia: introduce il Papa giovane, colui su cui tutti puntano per il progresso della Chiesa e un aggiornamento delle sue posizioni che la renda più al passo coi tempi, più in contatto con la società contemporanea.

Ma questi non sono i piani di Papa Pio XIII, determinato a portare avanti una linea intransigente ed estremamente conservatrice e deciso a far richiudere la Chiesa cattolica su se stessa, a renderla un luogo ancora più inaccessibile, un mistero di cui solo pochi meritevoli possono far parte. Lenny Belardo non vuole che la Chiesa nasconda il suo essere esclusiva: il potere non si nasconde più sotto una maschera di umiltà e finta bonomia, ma viene ben esibito attraverso i suoi simboli tradizionali: il talare, la stola in rocchetto, la tiara papale. Dalla promessa di novità spunta fuori lo stesso vecchio reazionarismo, sempre più inflessibile e aggressivo.

Tra blasfemia e beatitudine

chiesa cinema

In Sorrentino la religiosità si intreccia a una forza sensuale sospesa tra il sacro e il profano, la blasfemia e la beatitudine: dal corpo del giovane Papa interpretato da Jude Law a quello di Parthenope adornata del tesoro di San Gennaro. Entrambi corpi che emanano sensualità, entrambi inaccessibili e imperscrutabili. Il pontefice giovane, carismatico e affascinante, ma anche inflessibile e tirannico, inclemente con i fedeli e i cardinali ma soprattutto con se stesso: un’intransigenza che corrisponde a un’interiorità torbida e irrisolta, segnata da una profonda incertezza nei confronti della fede.

Se in Pio XIII questa sensualità è latente, in Parthenope si fa ben più manifesta: la sua bellezza fuori dal comune è il suo principale tratto distintivo, lo strumento con il quale naviga la sua esistenza. Una bellezza iperbolica, esasperata, smodata: una bellezza ampia e che dev’essere tale perché deve contenere la storia di un’intera città, le sue bassezze e le sue meraviglie. «La bellezza è come la guerra: apre le porte»: ma quali sono le porte che Parthenope vuole aprire? La giovane è consapevole del suo aspetto, e anche del fatto di poterlo usare a suo vantaggio. E lo usa: ma i suoi scopi non sono mai chiari e definiti, né corrispondono a quelli che considereremmo gli obiettivi auspicabili da raggiungere per chiunque.

Parthenope è un mistero. Nel corso del film le viene posta più volte la stessa domanda: «Cosa stai pensando?». E le risposte sono sempre vaghe e artificiose, frasi fatte ad effetto volte a spiazzare l’interlocutore, a depistarlo e nel frattempo ammaliarlo. Una tendenza che viene pariodata all’interno del film stesso, e che crea il vero mistero del personaggio di Parthenope: è un mistero o una truffa? È davvero una giovane fuori dal comune o uno specchietto per l’allodole che usa la bellezza e la risposta sempre pronta per nascondere il nulla?

Questa domanda si trasla da Parthenope alla religione in una sola scena: quella della seduzione dell’arcivescovo Tesorone nel Duomo di Napoli, dopo il rito della liquefazione del sangue di San Gennaro. Il miracolo non si è verificato, il sangue non si è sciolto: il grottesco prelato si lamenta del fatto che una mitomane l’ha distratto mentre performava il miracolo, come se il potere derivasse direttamente dalle sue mani e non dal volere di Dio.

Il miracolo diventa una performance in cui ogni gesto, ogni dettaglio è stato pianificato con minuzia: un rito con le sue formule millenarie, sospeso tra religiosità e folclore, cristallizzato nell’eterna ripetizione che lo svuota pian piano di ogni significato. E chissà se è da considerarsi una performance anche ciò che segue (e forse replica) lo spettacolo pubblico, nel privato peccaminoso della sacrestia, quando Parthenope compare ricoperta solo del tesoro di San Gennaro, pronta a concedersi all’arcivescovo.

Qual è il significato di quest’unione carnale e blasfema davanti agli occhi del santo e di Dio? Ci sono tracce di fede, per quanto contorta, nel concedersi di Parthenope all’autorità cattolica e nel suo essere ricoperta dei gioielli sacrali? Quali sono le sue motivazioni? Ancora una volta, la giovane rimane ammantata di mistero, un po’ come lo scioglimento del sangue di San Gennaro: ma quale sia la vera sostanza di questo mistero, non ci è dato saperlo.

E il mistero è la chiave di lettura sia nel caso di Paolo Sorrentino che in quello di Marco Bellocchio: il mistero è l’ingrediente di base del sentimento religioso, fondato su quell’eterna incertezza che pervade la nostra esistenza, la sua origine, la sua fine, e tutto ciò che si staglia al di là del nostro corpo vivente. Ed è la base di ciò che si organizza intorno a questa necessità di credere incondizionatamente a qualcosa: le narrazioni religiose si nutrono di misteri, con le loro zone d’ombra, le loro gerarchie e i loro miracoli inspiegabili.

Nella rappresentazione della religione cattolica, Paolo Sorrentino e Marco Bellocchio sono consapevoli della portata di questo mistero e del suo fascino impetuoso, ma hanno un atteggiamento diverso nei suoi confronti.

Se Paolo Sorrentino, anche nelle sue manifestazioni più irriverenti e blasfeme, conserva intatto il mistero in tutto il suo splendore con dei residui di timore reverenziale nei confronti di esso, Marco Bellocchio decide di strappare l’enigma ,strato dopo strato, fino ad arrivare alla carne nuda, alla ferita purulenta, all’oscurità nascosta nelle pieghe dello sfarzo. Ma pur raschiando fino in fondo, l’arcano rimane. Tolto il mistero, non finiscono le domande. Anzi: si moltiplicano, si fanno sempre più persistenti e angosciose. E da lì riparte il cinema, si fabbricano nuove narrazioni, nuove illusioni.


Illustrazione di Lucia Amaddeo

Questo articolo fa parte della newsletter n. 48 – marzo 2025 di Frammenti Rivista, riservata agli abbonati al FR Club. Leggi gli altri articoli di questo numero:

Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!

Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!

Sofia Racco

Classe 1999, una delle tante fuorisede in terra sabauda. Riguardo periodicamente "Matrimonio all'italiana" e il mio cuore è diviso tra Godard e Varda. Studio al CAM e scrivo frammenti sparsi in giro per il mondo.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.