Generazione X

Una generazione in bilico fra futuro e medioevo

5 minuti di lettura

Lost Generation, Beat Generation, Millennials, Generazione Z e Generazione Alpha. Nella storia dell’umanità tante sono state le generazioni di ragazze e ragazzi, di uomini e donne in cerca di un punto di riferimento, in cerca di un senso da dare al proprio spaesamento e da qui partire per rifondare la propria esistenza e dare, forse, una stella polare per chi verrà dopo di loro. Tutte queste generazioni hanno saputo e sapranno – chi più e chi meno – a rifondare la cultura dell’umanità

Nel lontano 1991, lo scrittore canadese Douglas Coupland ha pensato bene di scrivere un romanzo che a distanza di anni rappresenta e riesce a rappresentare tutte quelle generazioni in cerca di un senso. Un romanzo che già trent’anni fa ha saputo anticipare l’uso di nuovi linguaggi e che non solo ha saputo interpretare il passato, ma anche anticipare il futuro. Il libro in questione è Generazione X, in italiano pubblicato prima da editori come Interno Giallo e Mondadori e ora riproposto da Accēnto Edizioni nella collana «Accento grave».

Andy, Dag e Claire. Tre ragazzi «membri del jet set dei poveri» all’apparenza normali che hanno una cosa in comune: sono tutti in preda alla crisi dei Venticinque anni, momento cruciale della propria vita in cui «si aggiunge l’improvvisa consapevolezza della propria sostanziale solitudine al mondo». Per risolvere questa crisi, i tre protagonisti decidono di recarsi a Palm Springs, in California, in mezzo al deserto americano lontano da yuppie e famiglie disfunzionali varie. Lontano, insomma, da una peste culturale chiamata «accelerazione culturale» che sta schiacciando la società americana e che minaccia la stabilità dei nostri protagonisti.

Nel deserto, i tre si impongono «una politica di “storie della buonanotte”» che seguono le regole delle confessioni degli Alcolisti Anonimi: raccontarsi e raccontare storie sospendendo ogni giudizio poiché «tutti e tre super repressi emotivamente». In questo Decameron americano, i tre protagonisti passano in rassegna a una società che cambia, che accelera fra anonimi centri commerciali e lavori precari, e i cui membri necessitano di nuovi punti di riferimento.

Per definire Generazione X, azzarderemo a usare l’espressione «Decameron accelerato»: Decameron, perché i protagonisti si raccontano delle storie lontano, in questo caso, da una società malata di consumo, marketing e precariato; accelerato, perché come recita il sottotitolo del romanzo si tratta di storie per una cultura accelerata, quindi si tratta di racconti all’interno di una cornice in cui il tempo – quello del consumismo e del neoliberismo – corre velocemente senza sosta. Ciò che si sta dicendo trova riscontro nelle parole della prefazione al volume di Matteo B. Bianchi:

A trent’anni di distanza, Generazione X parla ancora ai lettori perché il bisogno di raccontarsi storie travalica tanto la condizione dei protagonisti quanto la loro famigerata generazione: è un’esigenza umana fondamentale in ogni tempo. E questa è l’eredità più significativa e profonda che questo splendido libro, in bilico fra futuro e medioevo, ci porta in dono ancora oggi.

Il libro di Douglas Coupland si conferma un classico contemporaneo per il semplice fatto che si mostra essere una fusione perfetta fra futuro e medioevo, un libro che ci fa riscoprire la necessità di raccontare storie per fermare il tempo e per farci capire in che direzione si sta muovendo la nostra cultura, ormai condannata alla massificazione e all’anonima omologazione di ogni aspetto della società.

La necessità di raccontare storie sottolinea la presenza di un grosso vuoto da colmare e una fase di assestamento da superare. Nel fare ciò, solitamente entra in gioco l’invenzione di un sistema nuovo di valori che passa soprattutto attraverso la lingua. Douglas Coupland è stato capace di inventare un linguaggio alle volte multimediale che ben illustra «l’overdose culturale» dell’epoca, ovvero la sovraesposizione a eccessivi stimoli mediali frenetici che hanno aumentato ancora di più lo spaesamento dei più.

Parole ed espressioni come “McJob”, “ground zero mentale”, “overdose culturale”, “bassifondismo storico” o “successofobia”, vignette a fumetti e slogan sparsi qua e là sono il tentativo di Douglas Coupland di creare il linguaggio della Generazione X. Sono difatti un modo per riempire il vuoto di cui fanno esperienza, e allo stesso tempo un modo per parlare di una cultura in cui il lavoro diventa sempre più precario e il consumismo sempre più imperante nelle nostre vite.

Se restiamo sul paragone con il Decameron di Boccaccio, quello che si può dire è che i tre protagonisti di Generazione X cercano riparo dall’epidemia del capitale, del consumo e dei media, in una Palm Springs che sembra sospesa nel tempo in quanto «a Palm Springs non esiste il clima, proprio come alla televisione» e «non c’è neanche un ceto medio, in questo senso è una cittadina medievale».

Qual è, però, veramente il mondo da cui Andy, Dag e Claire si rifugiano? È un mondo dove gli yuppie vivono in «bizzarre di centinaia di ville squadrate, tutte ugualmente assurde e gigantesche e dello stesso colore rosa corallo», i centri commerciali con la loro architettura «rozza e arrogante […] hanno senso nel contesto del paesaggio più o meno quanto le torri di raffreddamento di una centrale nucleare», la gente crede di «vivere facendo shopping» e gli anziani «cercano di ricomprare la giovinezza perduta e qualche gradino sulla scala sociale». Il loro è un contesto in cui il denaro sembra colmare la nostra mancanza di senso, ma in realtà non fa altro che accentuarla.

I tre protagonisti vivono in una realtà dove attraverso i nuovi media di allora come la televisione la gente arriva a pensare che sia tutto possibile, basta comprarlo, e basta lavorare per comprare sempre di più, e tutto ciò che il marketing mette in mostra è la vera vita. Tutto ciò contribuisce a creare la crisi che segna «non solo il fallimento di una gioventù, ma anche il fallimento di una classe sociale, del sesso e del futuro e di qualcos’altro ancora». Dopotutto, se si pensa di comprare tutto, non c’è spazio per l’immaginazione, e se non c’è spazio per l’immaginazione non c’è spazio per il futuro.

Ma, allora, come mai rifugiarsi lontano da tutti per raccontare storie? Perché la narrazione è la soluzione alla crisi: raccontare storie permette di immaginare nuovi mondi, permette di dare sfogo a emozioni e sentimenti che nel mondo esterno sono schiacciati dal consumismo e suscitati dall’assunzione di farmaci, e soprattutto dà una soluzione alla mancanza di prospettive laddove l’unica prospettiva possibile è immaginare di vivere in una casa più bella. Insomma, si raccontano storie per arginare l’accelerazione del tempo del marketing e per introdurre più contemplazione.

Generazione Y, Generazione Z e Generazione Alpha sicuramente non esisterebbero senza Douglas Coupland e la sua Generazione X (acquista). L’autore canadese ha fatto da apripista a tutte quelle generazioni in cerca di una mappa per orientarsi in un mondo bombardato da stimoli che fornisce riferimenti culturali effimeri e frammentati. Douglas Coupland ha dimostrato come dal vuoto si possa generare significato, ma soprattutto come la creazione di storie e di linguaggi riescano ancora una volta a dare un senso e una continuità a ciò che ci stordisce e ci manda alla deriva, a ciò che ci priva di un’identità omologandoci alla massa.

Viviamo vite piccole e di periferia; siamo ai margini, e ci sono molte cose alle quali decidiamo di non partecipare. Volevamo il silenzio, e adesso lo abbiamo. Siamo arrivati qui coperti di piaghe e foruncoli, con il colon talmente aggrovigliato che ci credevamo incapaci di andare di corpo per il resto della vita. Il nostro metabolismo aveva smesso di funzionare, intasato dall’odore delle fotocopiatrici, dal bianchetto, dalla carta extrastrong e dall’incessante stress dei nostri impegni assurdi, svolti di malavoglia e senza riconoscimenti di sorta. Eravamo preda di pulsioni che ci spingevano a confondere lo shopping con la creatività, a prendere tranquillanti e dare per scontato che noleggiare una videocassetta il sabato sera fosse sufficiente. Ma adesso che abitiamo qui nel deserto le cose vanno meglio. Molto meglio.


Illustrazione di Lucia Amaddeo

Questo articolo fa parte della newsletter n. 48 – marzo 2025 di Frammenti Rivista, riservata agli abbonati al FR Club. Leggi gli altri articoli di questo numero:

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Alberto Paolo Palumbo

Laurea magistrale in Lingue e Letterature Europee ed Extraeuropee all'Università degli Studi di Milano con tesi in letteratura tedesca.
Sente suo quello che lo scrittore Premio Campiello Carmine Abate definisce "vivere per addizione". Nato nella provincia di Milano, figlio di genitori meridionali e amante delle lingue e delle letterature straniere: tutto questo lo rende una persona che vive più mondi e più culture, e che vuole conoscere e indagare sempre più. In poche parole: una persona ricca di sguardi e prospettive.
Crede fortemente nel fatto che la letteratura debba non solo costruire ponti per raggiungere e unire le persone, permettendo di acquisire nuovi sguardi sulla realtà, ma anche aiutare ad avere consapevolezza della propria persona e della realtà che la circonda.

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