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Bakhmut

Xi, Prigozhin e una battaglia che non cambierà la guerra

I rapporti tra Kiev e Pechino non sono mai stati così freddi, l’Europa è senza una strategia e nel frattempo la battaglia di Bakhmut continua.

14 minuti di lettura

Il 20 marzo il presidente cinese Xi Jinping si è recato a Mosca in un viaggio che tutto il mondo guardava con attenzione. Tutti erano pronti a cogliere anche le sfumature più nascoste di un rapporto che molto probabilmente si dimostrerà cruciale non solo nel determinare le sorti del conflitto in Ucraina, ma anche nel dare forma al mondo che verrà. La Cina sta cercando di massimizzare i vantaggi che la guerra può portare nel riequilibrare i rapporti internazionali, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti, ma anche rispetto a un fronte occidentale più ampio che comprende l’Unione Europea e gli alleati americani nel Pacifico. Non è un caso che, proprio negli stessi giorni in cui Xi Jinping e Vladimir Putin posavano per le foto di rito nei saloni dorati del Cremlino, Fumio Kishida, premier giapponese, faceva vista a Kiev.

Un mediatore improbabile

La visita di Xi Jinping a Mosca ha per un momento riacceso le speranze, vane, che la Cina possa ricoprire un ruolo di mediazione super partes. Poche settimane prima, infatti, il ministero degli esteri cinese aveva fatto trapelare un documento in cui, in dodici punti piuttosto vaghi, veniva delineata una posizione ambigua e non certo risolutoria. Con estrema attenzione venivano omessi punti cruciali per entrambe le parti coinvolte, a cominciare dallo stato futuro dei territori ucraini al momento occupati dalle truppe russe. In ogni caso, se qualcuno avesse ancora dei dubbi, la Cina ha dimostrato che non può svolgere quel ruolo di mediatrice nel conflitto che le farebbe fare un notevole salto di qualità nella considerazione di cui Pechino gode presso le cancellerie di mezzo mondo, soprattutto nel sud. A conferma di ciò, oltre a un documento che non soddisfa davvero nessuno fino in fondo, vi è da aggiungere il fatto che l’attesa telefonata tra Xi Jinping e Volodymyr Zelensky ventilata dallo stesso entourage del presidente cinese non è mai avvenuta. Xi si è inoltre sbilanciato a favore della leadership di Vladimir Putin, dicendosi sicuro del fatto che sarà riconfermato alla guida della Federazione anche dopo le elezioni presidenziali in programma per la primavera del 2024. Non era mai successo nel corso di nessuna visita estera che il presidente, o parti dell’amministrazione cinese, si pronunciassero a riguardo con una così ferrea certezza. Dall’inizio dell’invasione, i rapporti tra Kiev e Pechino non sono mai stati così freddi.  A pesare è anche il sospetto, più volte avanzato dal Pentagono, che la Cina stia indirettamente sostenendo lo sforzo bellico russo non solo assorbendo parte della quota di commercio diretta verso l’Europa e calata drasticamente dall’inizio del 2022, ma anche sopperendo attivamente alle carenze strutturali dell’apparato bellico e industriale russo.

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La battaglia di Bakhmut

Per quanto riguarda quello che accade sul campo, le novità da segnalare non sono molte, ma in un futuro prossimo alcune cose potrebbero cambiare. Bakhmut non cade. Non ancora, almeno. La piccola città industriale vicina al confine tra l’oblast di Luhansk e quello di Donetsk ormai da mesi costituisce il luogo saliente lungo il quale si concentrano la maggior parte degli sforzi, ma l’esercito ucraino ha fino ad ora resistito, puntualmente smentendo di volta in volta le notizie e i video che annunciano che Bakhmut è ormai del tutto sotto il controllo russo. A guidare l’attacco sono soprattutto gli uomini della Wagner, la compagnia militare privata che risponde direttamente a Yevgeny Prigozhin, che tra un battibecco e l’altro con il nostro ministro Guido Crosetto trova il tempo di farsi filmare sui tetti della Azom, la principale acciaieria della città da poco conquistata dalle sue truppe o nelle strade ormai ridotte a macerie, mentre i colpi piovono tutto intorno. Se all’inizio dell’invasione il fronte attivo partiva da Kiev e arrivava fino a Kherson, ora il metro per valutare l’avanzata russa sono diventate le strade, i capannoni e le case di una cittadina non distante da una zona che di fatto la Russia già controllava dal 2014. Accanto a loro vi sono soprattutto gli uomini della VDV, truppe aviotrasportate che hanno dimostrato di essere tra le più efficienti nei ranghi non sempre irreprensibili dell’esercito che fu l’Armata Rossa. Proprio Yevgeny Prigozhin si è speso molto e in prima persona per la battaglia di Bakhmut, criticando aspramente l’esercito regolare e il ministro Sergej Shoigu per la scarsa collaborazione ricevuta. Una vittoria, l’unica da molti mesi a questa parte, sarebbe uno scalpo troppo importante per l’ex uomo di fiducia dei catering del Cremlino. Non sembra preoccupare troppo il fatto che, soprattutto all’inizio dell’attacco, il rapporto delle perdite era di circa tre, forse quattro a uno a favore delle truppe di Kiev. Nemmeno il fatto che la caduta di Bakhmut non cambierebbe sensibilmente gli equilibri sul campo sembra preoccupare troppo la leadership russa. Una possibile spiegazione è che l’opinione pubblica ha bisogno di una vittoria. Il fatto che si possa rivelare di Pirro, nonostante l’enorme costo umano che gli uomini stanno pagando sul campo, è irrilevante per la macchina della propaganda.

Nonostante la lenta avanzata russa, su di un fronte che comunque misura non più di una decina di chilometri, non sono da sottovalutare le polemiche, le provocazioni e le dichiarazioni sopra le righe che spesso accompagnano le truppe sul campo. L’esercito che il 24 febbraio di un anno fa ha dato il via all’invasione è in realtà composto da almeno cinque armate ben distinte, con direttrici e responsabilità diverse. Accanto all’esercito regolare vi è appunto la Wagner, che ha sensibilmente aumentato il suo peso negli ultimi mesi ma che ha anche pagato uno dei costi più alti in termini di vite umane. Vi sono poi le milizie di Donetsk e Luhansk, a lungo supportate dall’esercito regolare ma mai formalmente inquadrate in esso come accaduto invece per il reggimento Azov in Ucraina; infine vi sono i ceceni, che dopo l’assedio di Mariupol sembra abbiano assunto un ruolo più simile a quello di una polizia militare. Tutte queste forze agiscono il più delle volte in modo coordinato, ma non sempre rispondono alle stesse logiche. Anche la morte del blogger militare Vladlen Tatarsky a San Pietroburgo sembrerebbe rientrare più in una logica di regolamento di conti interna. Lo stesso Yevgeny Prigozhin si è detto dubbioso riguardo al coinvolgimento dei servizi di Kiev, in questo caso come anche in quello che ha visto la morte di Darya Dugina.

Non tutto però sembra sorridere alle truppe russe. Da alcune settimane, e la cosa preoccupa notevolmente gli stessi uomini del Cremlino, si sta registrando un incremento sostanziale delle divisioni corazzate ucraine a sud, dove opera il ricostituito battaglione Azov, e a nord della città. Alcuni analisti hanno calcolato la presenza di circa ottantamila uomini, supportati da un migliaio di mezzi leggeri, circa centosessanta carri armati e armamenti adatti a tentare una grossa offensiva. A resistere nella sacca di Bakhmut sono soprattutto riservisti e soldati di leva, mentre le truppe migliori sembra siano state evacuate già da diverse settimane, per preservarle. Per diverso tempo la direttrice più probabile verso cui sembrava possibile l’offensiva di primavera ucraina sembrava essere verso sud, in direzione di Berdiansk e Melitopol, ma le cose potrebbero essere cambiate. In quella zona le truppe di Mosca hanno avuto tempo di montare tutte le difese necessarie a rendere qualsiasi avanzata lenta, difficile e dispendiosa dal punto di vista umano e dei mezzi impiegati. L’idea di isolare così la Crimea è allettante, ma potrebbe essere un obiettivo fuori dalla portata delle truppe ucraine. Ora invece l’ipotesi di un’offensiva alle spalle di Bakhmut sembra prendere quota, per due motivi: da una parte, anche per la propaganda ucraina tenere la città sarebbe un successo enorme, spendibile presso gli alleati occidentali e nei confronti dell’opinione pubblica sia interna che russa. Anche in questo caso, come per i russi, un eventuale successo a Bakhmut sarebbe tutt’altro che determinante, ma spezzerebbe un’impasse che si prolunga da troppo tempo. Politicamente invece sarebbe un colpo durissimo per le amministrazioni russe degli oblast orientali, che per anni hanno atteso l’intervento russo per allontanare il fronte dalle principali città della zona, mentre rischierebbero di trovarsi in una situazione forse peggiore di quella di partenza.

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L’Europa non sa davvero cosa vuole

Il fronte ha riservato poche sorprese negli ultimi mesi, ma dietro le quinte qualcosa si muove. È difficile prevedere che in futuro una delle due parti abbia la forza di travolgere l’altra, ma al momento è altrettanto difficile immaginare una risoluzione del conflitto diversa da quella stabilita dal campo di battaglia. Non ci sono mediatori con il peso e la credibilità necessari a mettere d’accordo le parti. Gli Stati Uniti e la Cina non lo sono, anche se almeno Washington ha sempre mantenuto più di una linea aperta con il Cremlino, a differenza di Pechino con Kiev. La Turchia di Recep Tayyip Erdogan ha rimosso il veto all’ingresso nella NATO della Finlandia, e la cosa non può aver fatto piacere a Putin. Israele sembra essere troppo impegnato nell’evitare una guerra civile e nel prestare attenzione ai nuovi equilibri che vanno delineandosi in Medio Oriente per occuparsi della questione Ucraina. L’India non gode ancora dello status necessario per essere un mediatore autorevole. Al momento sembra che il conflitto non solo non finirà nel corso del 2023, ma non è da escludere che si prolunghi ancora più a lungo. L’Occidente rischia di ritrovarsi con una guerra a bassa intensità alle porte di casa, in parte anche perché non ha mai davvero deciso di rifornire Kiev con il necessario per vincere, e in parte perché non è in grado di stabilire che cosa questo voglia dire. All’Europa manca una strategia. A Mosca lo sanno, e sanno perfettamente che in una guerra di logoramento a cedere per primi non saranno loro.

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Immagine di copertina: © Libkos/AP/dpa/picture alliance

Michele Corti

Nato a Lecco nel 1996, studente di Scienze Politiche. Amo la montagna in ogni sua veste, il vento in faccia in bicicletta, la musica e provo a destreggiarmi nella politica internazionale, cosa fortunatamente più semplice rispetto a quella italiana."

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