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Per una pace ingiusta

La manifestazione per la pace a Roma ha fatto riflettere sulla guerra in Ucraina. Ma è veramente così semplice mettere in atto una pace fra due paesi in guerra? Una riflessione.

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6 minuti di lettura

«Siamo oltre cento mila» hanno dichiarato dal palco, sul finire della manifestazione, gli organizzatori della marcia per la pace conclusasi in Piazza San Giovanni a Roma sabato 5 novembre. Come di consueto, le stime della questura parlano di cifre ben più basse. In ogni caso però, si tratta di un successo per tutte quelle persone che si sono impegnate nell’organizzare la più importante e partecipata manifestazione pacifista per la guerra in Ucraina da quando il conflitto ha iniziato a  falciare le vite al confine tra l’ex repubblica sovietica e la Russia, e di riflesso ha cambiato un po’ anche le nostre. In un assolato pomeriggio romano, hanno fatto capolino anche diversi leader politici, da Giuseppe Conte a Enrico Letta, passando per Fassina, Rosy Bindy, Fratoianni, Vendola, Laura Boldrin. Nessuno, si era detto, avrebbe dovuto mettere il cappello ad un evento che sarebbe stato condiviso, inclusivo, il più possibile estraneo alla politica. È stata invece l’occasione, ancora una volta, per un’opposizione che non sa ancora bene dove andare, per dire tutto e nulla, per smentire azioni di governo sostenute fino all’altro ieri, per prendersi anche una buona dose di fischi in qualche caso, e per avere quel poco di visibilità che un governo in un certo senso già in difficoltà non sta lasciando ai partiti che non ne fanno parte. Se c’è una cosa di cui si può essere certi riguardo alla manifestazione di sabato, è che la grande affluenza di persone non era legata alla presenza di leader di partito in cerca di un posto nel mondo. È stato l’associazionismo il vero motore dietro al successo di Piazza san Giovanni: erano presenti, tra gli altri, Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Rossella Miccio, presidente di Emergency, Don Ciotti e padre Alex Zanotelli oltre a decine di piccole e grandi associazioni per il disarmo, l’accoglienza, la lotta ecologista. C’era anche Maurizio Landini, che però, giustamente è rimasto in disparte.

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Quale pace chiediamo?

Manifestare per la pace è sacrosanto, e quello che è successo ha dimostrato una volta di più che esiste una rete profonda, larga e dai valori condivisi, capace di mobilitarsi e mobilitare in modo trasversale, di diffondere un messaggio. Il problema, questa volta, è proprio capire che tipo di messaggio gli organizzatori volessero trasmettere, perché il rischio era quello di sminuire un concetto che invece è estremamente complesso, e che non può ridursi sempre alla richiesta di far tacere le armi e sedersi intorno ad un tavolo come se nulla fosse successo, come se le ragioni della guerra in Ucraina non contassero, come se entrambe le parti coinvolte debbano essere disposte a rinunciare a qualcosa come se si trovassero sullo stesso piano. Oppure, come se si trattasse di una guerra motivata solo da ragioni economiche, e per questo forse più semplice da ridurre a compromesso, come se i valori in gioco in qualche senso non ci appartengano, perché una pace ingiusta sia comunque e sempre meglio di qualsiasi conflitto, quando la storia insegna che non è così. Smettiamo di inviare armi agli ucraini, a quel punto, senza il nostro sostegno, saranno obbligati a trovare un compromesso con l’invasore, ad arrendersi, a dare spazio alla diplomazia. Non importa in che termini, non importa che i russi raggiungano, almeno in parte, i loro obiettivi, e lo facciano dopo le esecuzioni e le fosse comuni di Bucha, che qualcuno sabato in pazza probabilmente sei mesi fa negava. Non importa che Kiev, come rappresaglia agli insuccessi sul fronte sia stata costantemente oggetto di bombardamenti indiscriminati. Non importa di solo sa quante decine di migliaia di persone sono state costrette a spostarsi in Russia, i campi minati, le coltivazioni bruciate, le minacce nucleari, il blocco delle navi cariche di grano, l’assedio di Mariupol, dalla quale “non doveva uscire o entrare nemmeno una mosca” in modo da prendere gli assediati per fame. Non importano i missili su Odessa, i ponti distrutti, le rappresaglie, i Kadirovtsy usati per terrorizzare la popolazione, gli stupri. Sedevi attorno ad un tavolo e venitevi incontro, alla fine, in qualche modo, i torti sono da entrambe le parti no?

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Fa sorridere che questo concetto sia stato espresso, nei medesimi termini, solo qualche giorno fa da Silvio Berlusconi, uno che probabilmente in privato non esita a dare la colpa agli ucraini riguardo alla guerra. In fondo, se si fossero arresi subito e non avessero opposto resistenza, in un paio di settimane i russi se ne sarebbero andati, giusto il tempo di sistemare un governo di “persone per bene” al posto di quello guidato da Zelensky. Fa sorridere anche l’uso che di “bella ciao” ormai viene fatto in qualsiasi occasione. Che sia in solidarietà ai migranti, ad una manifestazione per i diritti civili o ieri in Piazza san Giovanni. È vero che il senso della canzone trascende almeno in parte le strofe di cui è composta, ma è pur sempre vero che racconta la storia di un uomo che, alzatosi un mattino, ha trovato la propria patria invasa dallo straniero e non ha esitato a prendere in mano il fucile, a scappare sulle montagne per combattere, lasciando detto che proprio lassù, se fosse morto, avrebbero dovuto seppellirlo, sotto ad un fiore a simboleggiare la libertà per la quale aveva combattuto. Bella Ciao è divenuta nel tempo il cantico di tutti, e forse ha perso in qualche modo il significato che ha avuto per quegli uomini che per primi la intonarono oltre ottanta anni fa. Distribuire patenti per intonarla, come sembra abbia accennato a fare Carlo Calenda, è pericoloso ed inutile, piegarne il significato dei versi a qualsiasi battaglia contemporanea lo è in egual misura.

Un diritto che non possiamo prenderci

In un recente articolo pubblicato su La Stampa, Francesca Mannocchi si sofferma a lungo sul concetto di pace giusta, chiedendosi se davvero quella che i manifestanti chiedono per la guerra in Ucraina lo sia, e se soprattutto sia meglio del conflitto tutt’ora in corso. In primo luogo, al tavolo di una qualsiasi ipotetica trattativa, Putin non potrebbe mai rinunciare ai territori occupati fino ad ora, ed anzi potrebbe spingersi fino a reclamare tutta la costa meridionale dell’Ucraina fino a Odessa, città che nei suoi deliri storici occupa un posto speciale nella storia russa. Non potrebbe rinunciarvi perché la sua immagine ne uscirebbe irrimediabilmente compromessa sul fronte interno e perché non è in una posizione di forza sul campo. In secondo luogo, il leader russo ritiene che l’unico interlocutore per una possibile trattativa sia Washington, con la quale vorrebbe sostanzialmente tornare ad una spartizione dell’Europa in sfere di influenza, dove il significato russo del termine è molto vicino a quello che in Europa viene definito dominio coloniale. In un recente articolo pubblicato su Foreign Affairs, viene analizzato il modo con cui Putin sta plagiando internamente la storia per piegarla a fini propagandistici, e nella storia vista dal Cremlino, non c’è posto per l’esistenza di uno stato indipendente ucraino. Semplicemente non è mai esistito, e se esiste ora si tratta di un errore. Un errore a cui porre rimedio. L’equazione russa manca però, non senza una vena razzista, di riconoscere gli ucraini per quello che sono, ovvero un popolo che ha ampiamente dimostrato di non voler più vivere sotto il giogo russo, e che quindi non si può escludere dalle trattative. Qualsiasi trattativa che non tenga conto della posizione ucraina non porterebbe da nessuna parte, e la posizione ucraina è chiara. Kiev chiede il rispetto dei confini riconosciuti dalla comunità internazionale, non la luna, e qualsiasi cosa in meno, figurarsi l’ipotesi di perdere tutta la fascia costiera, più la Crimea ed il Donbas, non sarebbe accettabile per la popolazione in primo luogo, che non esiterebbe a cacciare chiunque al governo firmi anche solo un armistizio a condizioni del genere. Secondo un recente sondaggio Gallup, intorno all’80% della popolazione crede nella vittoria e nel ripristino dei confini. Non è un caso che Lavrov, per far cessare la guerra in Ucraina, si sia sempre detto disponibile a trattare con l’Occidente, non con Kiev. Se letta tra le righe, anche la richiesta, emersa dalla piazza di sabato, di smettere di sostenere la lotta armata di Kiev ha un che di egoista e vagamente razzista. In qualche modo stiamo dicendo agli ucraini che noi, occidente, dovremmo trattare per salvare loro stessi dai loro stessi governanti che invece si rifiutano di cedere al ricatto russo. Lo facciamo per il loro bene, perché noi sappiamo qual è. La storia però insegna, e ci sono decine di esempi, che imporre una pace iniqua spesso possa portare a risultati anche peggiori di quelli di partenza.

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Per un salto nel passato, oppure per quello che siamo

Putin inoltre non sta combattendo, con tutta la ferocia di cui è capace, solo per eliminare un paese che di fatto, secondo la dottrina russa, non dovrebbe esistere. Sta combattendo per tornare ad un modello statuale westfaliano, che il mondo, e l’occidente, hanno abbandonato nel 1919. Il concetto di fondo è che nessuno abbia il diritto di esprimersi riguardo gli affari interni di un altro stato, secondo il principio di non interferenza e di sovranità. Poco importa se casa mia coincida con i confini internazionalmente riconosciuti, o se invece possa essere considerato Russia ogni lembo di terra abitato da uomini e donne che parlino russo. Ogni riferimento ai Sudeti, all’Istria ed alla Dalmazia, alla Vallonia francofona, alla Prussia, alle comunità turcofone dell’Asia centrale, a Taiwan, al Kosovo può essere utile a comprendere l’importanza di questo concetto. Questa è l’idea di comunità internazionale che Putin sta cercando di affondare attraverso la guerra in Ucraina, e per la quale vale la pena sostenere il popolo ucraino nella sua lotta. Ci sarà tempo per la pace, quando potrà essere giusta. Ed a deciderlo non siamo solo noi.

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Michele Corti

Nato a Lecco nel 1996, studente di Scienze Politiche. Amo la montagna in ogni sua veste, il vento in faccia in bicicletta, la musica e provo a destreggiarmi nella politica internazionale, cosa fortunatamente più semplice rispetto a quella italiana."

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