Il rapporto tra lo spazio urbano e la stagione estiva è un legame ricco di contrasti e sfaccettature: nessuno vuole stare in città durante i mesi più caldi, eppure c’è chi è condannato a restarci comunque. I grandi colossi di polvere e asfalto si surriscaldano sotto il sole, i palazzi imponenti e le case a ringhiera proiettano le loro ombre d’inchiostro sulle strade e sulle piazze creando spazi di arsura dove la memoria si confonde, i contorni degli ambienti si affilano e i confini tra i corpi si smorzano e si mescolano.
Il cinema raccoglie queste suggestioni e crea quadri metafisici di esistenze sospese e languori assopiti, trasportando gli spazi liminari delle coste e delle località marittime all’interno dell’urbe, costruendo atmosfere indolenti intorno a personaggi confinati, prigionieri del tempo e dello spazio, il cui nucleo essenziale di partenze si riassume in una sola domanda: «e tu, perché rimani qua quando tutti se ne vanno?».
Desiderio e classe: i giovani e la città d’estate

La città è una questione di classe. Nucleo accentratore di chi arriva in massa alla ricerca di maggiori opportunità economiche, lavorative, culturali, ma anche raccoglitrice di speranze che macina e dissolve con inclemenza. Se d’inverno le arterie della città pullulano di folle eterogenee che si affannano tra il lavoro e faccende varie di sopravvivenza o meno, d’estate si assiste a un esodo in miniatura.
Le strade si svuotano, chi può prende la macchina e si dirige verso le case estive sulla costa, a godersi la brezza di ponente e la frescura del mare, mentre gli altri si barricano dietro le persiane chiuse degli appartamentini cittadini con l’aria condizionata o il movimento meccanico di un ventilatore che muove l’aria stantia della stanza.
Il cinema italiano riesce a registrare questo spostamento dell’ago della bilancia che misura quel restringimento del tempo e dello spazio dedicato alle vacanze, ma soprattutto la riduzione progressiva del periodo ricreativo accessibile alle diverse fasce della popolazione e la trasformazione delle vacanze in momento riservato a individui privilegiati.
Basti pensare alla filmografia degli anni Cinquanta e al filone del cinema balneare: dalla Famiglia Passaguai (1951) di Aldo Fabrizi, racconto comico-grottesco che grazie a uno sconto aziendale vanno a trascorrere una domenica a Fiumicino, a Vacanze a Ischia (1957) di Mario Camerini fino alle evoluzioni più ciniche e disincantate come Il sorpasso (1962) e L’ombrellone (1965) di Dino Risi.
Sempre di Dino Risi è uno dei film che si distingue all’interno del filone balneare per la peculiarità della sua ambientazione: Poveri ma belli del 1957, con Maurizio Arena, Renato Salvatori e Marisa Allasio nei ruoli di Romolo, Salvatore e Giovanna, tre giovani immersi nella calura estiva della Roma degli anni Cinquanta. A metà tra neorealismo rosa e commedia all’italiana, Poveri ma belli è il ritratto scanzonato della gioventù romana dell’epoca, tra triangoli amorosi, marachelle per strada e balli a tarda notte sulle note di un giradischi. I litorali balneari vengono inglobati nel ventre urbano e trasfigurati sottoforma di spiagge artificiali del lungo Tevere, ricostruite in tutto e per tutto come simulacro ironico delle classiche mete turistiche costiere.
Qui la questione di classe è sottaciuta, ma attraversa implicitamente tutto il tessuto della narrazione, incentrata sul triangolo amoroso e il conflitto tra i due amici, con rimandi al desiderio di elevarsi socialmente dei due giovani di borgata: «Questa è la vita che mi piacerebbe fare, senza pensieri e con un sacco di soldi! Pensa se uno di questi ricconi mi adottasse…» commenta Romolo a cena con Giovanna in un locale di lusso pieno di gente altolocata.
Un altro tema preponderante in Poveri ma belli è quello di genere: le prime scene sono un esempio evidente del trattamento riservato alla figura femminile nel cinema degli anni Cinquanta, con una ragazza che passeggia per strada mentre un gruppo di ragazzi che la importunano con occhiate insistenti, fischi e commenti, subito seguita dalla scena che introduce Giovanna dietro la vetrina del negozio, come se fosse un manichino la cui unica funzione è correlata alla sua bellezza esteriore.
Ma poco dopo i ruoli si ribaltano: ad essere esibiti in vetrina come manichini grazie allo scherzo di Giovanna, sottoposti allo scherno degli amici e alla riprovazione dei passanti che rimpiangono i “vecchi tempi” sono proprio Romolo e Salvatore, fino a qualche attimo prima così spavaldi e sicuri di aver dato prova della loro virilità grazie alla nuova conquista. Un ribaltamento avanguardistico dei ruoli di genere tradizionali? Non proprio: come si osserva dagli sviluppi successivi dell’intreccio, l’apparente ribaltamento e la costruzione del personaggio di Giovanna come donna emancipata sono scossoni funzionali al ristabilimento dello status quo e delle istituzioni relazionali consueti. Gli afflati di libertà e i momenti di ribellione sono consentiti, a patto che rimangano confinati alla zona liminale dell’estate.

Il sorpasso, estate malinconica e sogni andati in fumo
Una macchina che sfreccia per le strade deserte di Roma tra i palazzoni con le saracinesche tutte chiuse; gli unici rumori che la accompagnano sono quelli del commento musicale concitato di Riz Ortolani e il rumore del clacson suonato con insistenza contro altri guidatori inesistenti. Tra le case disabitate si intravede solo una finestra con una figura umana che si affaccia timidamente per spiare l’esterno.
Questa è la scena iniziale de Il sorpasso: Bruno Cortona (Vittorio Gassman) è l’uomo alla guida sfrenata dell’auto, Roberto Mariani (Jean-Louis Trintignant) è il timido e accondiscendente studente di legge che osserva con timore e desiderio la vita fuori dalla sua finestra. «Io quando vedo la città così vuota mi avvilisco…» «Beh ma per studiare è meglio» «Ah certo…per studiare sì…»: la città estiva viene già evocata da questo iniziale scambio di battute tra Bruno e Roberto con tutte le sue ambiguità e sfaccettature, divisa tra asprezza e docile quiete, solitudine angusta e imperturbabile.

Una Roma deserta sfreccia accanto all’auto di Bruno, apparizione fugace e intrisa di calore e di indolenza, prima di correre via sull’autostrada per intraprendere una gitarella di Ferragosto, alla ricerca disperata di qualche brandello di leggerezza. Il film è cosparso di riferimenti alla situazione sociopolitica italiana del periodo, quella del boom economico: tra la Lancia Aurelia che sfreccia sicura, televisori che iniziano a fare capolino sul grande schermo e altri elettrodomestici simbolo dell’avvento del consumismo moderno, l’atmosfera che si respira è quella di un ottimismo esasperato permeato di un sentimento funereo, di una fiducia nel futuro tanto genuina da chi la prova quanto posticcia per chi la osserva.
L’estate diventa una dimensione onirica dove sogno e incubo si mescolano fino a dare vita a un’atmosfera indefinita dove tutto è possibilità e rovina al tempo stesso, sospesi tra una gioventù disillusa e una vita adulta satura e fintamente sognante.
Come è stato osservato, uno di questi scenari prediletti sono le spiagge, preferibilmente quelle formicolanti e colonizzate dagli ombrelloni, dai riti del consumismo, dall’imperativo categorico al divertimento di massa, della riviera adriatica (L’ombrellone, 1965, di Dino Risi), della Versilia (Il
sorpasso), del litorale romano (Il giovedì, 1963, di Dino Risi), dove floridi commendatori e traboccanti bikini esibiscono irrefrenabili desideri narcisistici annegati nell’euforia generale. La dialettica tra l’individualità e il gruppo sociale che prende forma così vividamente nella spiaggia, è ne Il sorpasso particolarmente evidente.
Gli individui […] vengono bruscamente travolti dal “tutti”, come attesta la sequenza balneare de Il sorpasso. Non avendo trovato una sistemazione migliore, Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant sono andati a dormire in riva al mare, e sulla spiaggia silenziosa e deserta si scambiano persino qualche confidenza notturna. Ma una brusca dissolvenza incrociata ci porta al mattino dopo, ferragosto, con le canzonette a tutto volume, le sedie a sdraio straripanti di corpi, e Vittorio Gassman che viene risvegliato non dalla brezza mattutina ma da una pallonata in testa. È l’invasione del “tutti”, che entra violentemente nel campo privato dei due protagonisti, provocando opposte reazioni: Gassman, maestro dell’integrazione, si adegua subito al nuovo clima, e dopo pochi minuti è già al centro dell’attenzione generale, come se fosse su quella spiaggia da sempre; Trintignant, modello perfetto di asociale, resta in camicia e pantaloni per tutta la sequenza.
– Maria Pia Comand, Dino Risi: Il sorpasso
La città vista dalle finestre: Pranzo di Ferragosto

Roma è la città privilegiata per la rappresentazione dell’estate urbana, con le sue strade ciottolate che ardono sotto il sole di agosto e quei coraggiosi superstiti rassegnati che si ostinano ad attraversarla affrontando le temperature da solleone: anche se nella realtà contemporanea anche ad agosto la capitale è inondata da miriadi di turisti che la scelgono come meta estiva, forse un po’ incuranti un po’ ignari delle temperature, nel cinema la città inondata dalla calura assume aspetti metafisici, con i monumenti imponenti e solitari, e un po’ esistenziali, con qualche anima sparuta, meditabonda e affaticata.
C’è chi si riversa per le strade, e chi si rinchiude in casa per poi mettere la testa fuori solo al calar del sole, prendendo la notte come un momento di libertà dall’arsura e dalla catena delle giornate: come il Pranzo di Ferragosto di Gianni di Gregorio (2007), dove le giornate estive trasteverine si consumano tutte dentro casa.
Gianni, un uomo di mezz’età che vive con l’anziana madre, una donna eccentrica e capricciosa, nel bel mezzo di agosto si ritrova alla porta l’amministratore di condominio con una proposta: l’estinzione di tutte le spese condominiali a patto che Gianni ospiti la madre Marina e la zia Maria per la notte e il giorno di Ferragosto. Il giorno festivo per eccellenza dell’estate diventa un ultimatum che grava sulla testa di Gianni, ricoperto di debiti e responsabile sia per se stesso che per la madre.
Da questa situazione si crea un microcosmo bizzarro del tutto autonomo dalla città circostante: l’azione si concentra quasi interamente all’interno della casa di Gianni, dove le anziane signore impongono i propri ritmi, abitudini e idiosincrasie creando un universo a se stante, a tratti giocoso e a tratti opprimente, e noi attraversiamo questo universo con Gianni, che si affanna per tenere al sicuro le sue ospiti e assecondarle in tutto e per tutto.
Ci sono delle rare feritoie che ci lasciano affacciare sulla vita della città: sono quei rari momenti che Gianni ha per se stesso, quando fa un salto all’osteria a bere col suo amico, l’unico rimasto in città. Ma la città di giorno non sembra avere molto di diverso dalla casa di Gianni in quanto a senso di oppressione e di torpore: i pochi movimenti che si verificano sono svogliati, carichi di flemma e rassegnazione. I personaggi che traboccano più vita sono proprio le anziane che hanno invaso la casa di Gianni, incuranti della stagione e del tempo, avviluppate nel proprio personalissimo ritmo.

Questo articolo fa parte della newsletter n. 52 – luglio/agosto 2025 di Frammenti Rivista, riservata agli abbonati al FR Club. Leggi gli altri articoli di questo numero:
- La città d’estate, ovvero la morte della morte di G. Fava
- Storia di sopravvivenza urbana di E. Fioletti
- Città deserte: l’estate urbana nel cinema italiano di S. Racco
- La città ci guarda: vivere tra sorveglianza e illusione di S. Argento
- Le città che costruiamo (e quelle che nascono da sole) di D. Ippolito
- Scappare dalla città: «As you like it» di Shakespeare di M. Giardini
- Calore in città e freddo a letto: in estate lo spazio urbano uccide l’eros di A. D’Eri Viesti
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