Il fine dell’esplorare il concetto di comprensione è quello di disinnescare le ipotesi che fanno credere di trovarsi davanti ad enigmatici processi psichici o stati mentali nascosti, che noi non riusciremmo mai a «mettere a fuoco». Perciò, secondo tali ipotesi, il «comprendere» sarebbe un processo mentale, un’attività che ha misteriosamente luogo nella mente.
Se noi comprendiamo le parole, le proposizioni, vi è la tendenza a credere che obbligatoriamente il nostro linguaggio debba seguire un canone di rigore preciso. Allo stesso modo ci si accorge che esso non sempre riesce ad allinearsi a tali regole, ma che noi lo comprendiamo ugualmente: riusciamo a capire le nostre inferenze anche se l’uso che ne facciamo o le spiegazioni che ne diamo non esauriscono il significato. Perciò, riusciremmo a comprendere un qualcosa “di più” che fondamentalmente rimane incomprensibile. Il dilemma che emerge è tale: se consideriamo il linguaggio alla stregua di un calcolo preciso, e se supponiamo che il significato di una parola sia conoscere le possibilità grammaticali della sua applicazione, quello che dovrebbe accadere è di riuscire o ad afferrare la grammatica di una parola in un colpo solo o capire la parola solo dopo aver effettuato un’analisi grammaticale. Nasce da pregiudizi del genere l’idea di una comprensione alla stregua di un processo nascosto, che ha luogo nella mente.
L’idea che seguiremo in questo articolo è quella del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, che come è solito fare, suggerisce e presenta le sue argomentazione partendo da un esempio: ad un allievo deve essere insegnato la successione dei numeri naturali del sistema decimale. La comprensione del procedimento verrà attribuita dall’insegnante conseguentemente all’applicazione corretta delle regole sottese al sistema. La precisione dello sguardo del nostro autore fa notare subito una impasse: il fatto che si vada avanti a scrivere fino a questo o quel numero non è una condizione necessaria per ipotizzare che si possiede il sistema. Tale fatto testimonia soltanto un’applicazione del comprendere.
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Non si fa alcun passo avanti nella chiarificazione della nozione di «comprendere». Anzi, verrebbe a delinearsi quello che già abbiamo asserito poco sopra: cioè che la comprensione rimane uno stato mediante cui hanno origine le applicazioni corrette. In sostanza, il comprendere rimane uno stato di cui le applicazioni sono gli indizi, ma che rimane inintellegibile. Ma la profondità delle osservazioni del filosofo austriaco sta proprio nel delineare una differenza tra il parlare di una cosa attraverso indizi, e il poterne parlare solo mediante indizi. Se la comprensione fosse uno stato alla stregua, per esempio, di uno stato psichico del sistema nervoso o di uno stato fisico, le applicazioni corrette sarebbero condizioni necessarie per ipotizzare la presenza di tale stato ma non sufficienti per affermarlo.
Il caso particolare
Nel nostro caso invece non possiamo parlare che tramite indizi, e da ciò deriva il fatto che l’applicazione risulta un criterio unico e necessario per affermare la comprensione. Quello che ci si dovrebbe chiedere a questo punto è: in quale senso un indizio è un criterio?
Un indizio normalmente è un’ipotesi sull’esistenza di una cosa che poi può essere verificata: vedo un cellulare sopra il tavolo, posso ipotizzare che vi sia qualcuno, e cercandolo posso verificarlo. Ma quando non dispongo altro che d’indizi, l’indizio risulta criterio necessario per affermare, e più precisamente il criterio di un qualcosa che non posso verificare. Ne segue che la comprensione deve essere una tipologia di stato particolare. In questo caso il criterio/indizio non ipotizza, come fa comunemente, ma giustifica l’impiego della parola stessa, della parola «comprendere».
Non ci si può accertare dello stato di comprensione poiché non ha senso in questo luogo parlare d’ accertamento. Contrariamente, le applicazioni della comprensione risultano, non indizi per ipotizzare, ma criteri per asserire se un soggetto ha inteso veramente; non essendoci altri modi per dire che ha compreso.
A sfavore di tale tesi esistono argomentazioni della tipologia seguente: le applicazioni della comprensione sono fenomeni concomitanti che potrebbero indurre a considerare la totale assenza di un comprendere, e l’esistenza di sole manifestazioni di questo stato, chiedendosi se esista veramente uno stato siffatto. Per Ludwig Wittgenstein questa tipologia di domanda è insensata. Quello che viene sottolineato è che la grammatica di uno stato di coscienza comune è completamente diversa da quella dello stato di comprensione, e per constatare questa differenza basta osservare l’effettivo uso, l’impiego di parole come «comprendere», «intendere», «sapere». Bisogna domandarsi quale è il criterio per affermare che qualcuno si trova in tale stato.
Quotidianità epistemogologica
Seguendo tali linee di riflessione, la comprensione non è uno stato come lo possono essere la tristezza, il dolore, l’eccitazione. Di questi ultimi possiamo proferire l’intensità, la durata, ma questo non accade con concetti come: sapere e comprendere. È insensato dire: «Quando hai cessato di comprendere questa parola?». Viene notato allora come il concetto di comprendere sia strettamente legato al «padroneggiare una tecnica».
La padronanza di una tecnica d’uso di una parola, deve essere costituita da una serie di applicazioni, da una regolarità di impieghi e non può essere racchiusa in un hic et nunc. Ma nella vita quotidiana noi utilizziamo proposizioni come: «Adesso lo so!» o «Ora comprendo», che inducono a credere che lo stato particolare del comprendere sia racchiuso in un istante. Tali fenomeni quotidiani danno forza ad argomentazioni quali: le applicazioni del comprendere non possono essere il comprendere stesso, poiché nel linguaggio quotidiano esistono affermazioni come: «Capisco!», «Adesso comprendo!» che non precludono azioni o tecniche. Dunque la comprensione vera e propria deve contenere un qualcosa in più di quelle applicazioni o manifestazioni del comprendere.
Di nuovo, da tali argomentazioni ha origine l’idea che il comprendere sia qualcosa di nascosto, celato dietro alle sue stesse applicazioni. Quello di cui ci si accorge immediatamente è che se ammettiamo il comprendere come inaccessibile, velato dietro fenomeni che ne dimostrano l’esistenza, ci si potrebbe ritrovare in un bell’imbroglio. La tesi del comprendere come processo nascosto contiene un problema metodologico nella sua stessa formulazione: come si può sapere in che direzione cercare tale essenza del comprendere, se esso rimane inaccessibile.
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Per uscire da questa difficoltà Wittgenstein suggerisce di abbandonare completamente e radicalmente l’idea erronea di una metafisica essenzialistica della conoscenza e della comprensione, e a pensare che se deve esserci qualcosa che permette di affermare l’effettiva comprensione, questo qualcosa saranno specifiche applicazioni e circostanze.
Contrariamente a ciò che si può credere, sono le circostanze in cui è accaduto di comprendere e di sentire di farcela che autorizzano a dire di aver compreso. In sostanza, quello che vuole dirci il nostro autore è che proposizioni come: «Capisco», «Ora lo so», sono segnali del comprendere, esclamazioni, non sono una descrizione del processo di comprensione; la correttezza dell’applicazione di questa tipologia di proposizioni sarà giudicata in base a ciò che farà in seguito colui che la esprime. Questo è il criterio per affermare se un soggetto ha compreso veramente. La peculiarità dello stato chiamato comprensione, è quella di non poterne parlare se non tramite indizi, che sono criteri di applicazione, e questo appartiene alla grammatica di designazione di stati come il comprendere.
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