Un centro benessere, un surreale solarium dalle pareti di un blu elettrico simile a quello delle tele di Yves Klein et Francis Bacon. La radio trasmette un’orecchiabile canzone neomelodica napoletana. Poi uno sparo, più spari. Il titolo rosa accecante e fintamente rassicurante ci annuncia che siamo nel Paese di Gomorra, dove gli uomini parlano una lingua incomprensibile – i sottotitoli contribuiscono all’effetto di straniamento percepito dallo spettatore – e vivono in un mondo apparentemente lontano da quello che conosciamo. L’incipit è in media res, non c’è nessuna introduzione, nessuna gradualità nella violenza, siamo già immersi nel sistema.
Come raccontare il Paese di Gomorra? Ma soprattutto cosa significa guardare un film come Gomorra?
Crudo, angosciante, assurdo, impressionante, l’omonimo libro di Roberto Saviano, pubblicato nel 2006, ha segnato la nostra cultura, lasciando un’impronta indelebile nella nostra consapevolezza di cittadini, genitori e italiani. Roberto Saviano ha letteralmente aperto una breccia in un mondo per noi oscuro e latente, mostrandoci con lucida freddezza che cosa accade realmente alle radici della criminalità organizzata, una società “ideale” perfettamente funzionale in cui però non esiste giustizia o umanità, e dove l’unica cosa che conta è il potere.
Nel 2008 il regista Matteo Garrone, nato a Roma nel 1968, già noto al grande pubblico per film come L’imbalsamatore (2002) e Primo Amore (2004), intraprende la difficile impresa di realizzarne la trasposizione cinematografica, che pochi mesi dopo si aggiudica l’ambito Grand Prix al Festival di Cannes e i riconoscimenti di miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura, miglior fotografia e miglior interpretazione maschile agli European Film Awards, consacrando il regista come uno dei nuovi talenti emergenti del cinema italiano per il suo linguaggio spontaneo, privo di spettacolarizzazione e quanto più vicino al reale.
Chiaramente, nel passaggio dal romanzo al film e, più tardi, alla serie televisiva realizzata da Sky nel 2014, Gomorra ha subito numerose modifiche, un cambiamento di linguaggio che inevitabilmente ha perso qualcosa del libro e dell’intento iniziale dell’autore. Se il libro descrive, infatti, i veri e propri meccanismi del potere criminale da un punto di vista economico e i tratti tipici della vita del sistema mafioso con un approfondimento psicologico complesso, Garrone si discosta dalla visione globale e universalistica di Roberto Saviano per entrare nel piccolo, per narrare l’orrore di quel quotidiano vissuto da personaggi spesso ridotti a una sola dimensione, come se il male non esistesse, o almeno, come se fosse entrato a far parte di un comune e banale sistema di ordinaria amministrazione. Sulla pagina lo scrittore addotta una molteplicità di sfumature e una complessità di trama che spesso il regista non si può permettere, costretto a riassumere in poche ore una struttura cristallina terribile dove la realtà è, come sottolinea lo stesso scrittore, assai peggiore di quello che si racconta.
Nella Scampia di Gomorra l’occhio della cinepresa si alterna in cinque storie differenti, tutte accomunate da uno stretto contatto con la società malavitosa. Don Ciro tradisce i suoi uomini pur di salvarsi durante una paranza causata dalla faida tra il clan Di Lauro e il gruppo degli scissionisti di Secondigliano, Roberto e Franco gestiscono il mercato illegale dello smaltimento di rifiuti tossici in Campania, mentre Pasquale lavora nel campo dell’alta moda, ma rimane presto schiacciato dalle intimidazioni dei camorristi che gestiscono il giro della sartoria “in nero”. Le storie più crude e che sicuramente hanno attirato l’attenzione del grande pubblico sono quelle che riguardano la vita di alcuni ragazzini che fin da piccoli non solo vivono immersi nel complesso sistema camorristico, ma la cui unica ambizione è farne parte, sentirsi accettati e rispettati. Calzante è, per esempio, il caso di Totò, ragazzino di tredici anni che accecato dal mito mafioso attira la sua vicina di casa, Maria, in un’imboscata organizzata per vendicarsi di una precedente esecuzione compiuta dagli Scissionisti.
I veri protagonisti della pellicola di Garrone, che ritroviamo poi nella stessa locandina del film, sono però Marco e Ciro, detto “pisellino”, che ambiscono a diventare due camorristi ammirati e affermati ispirandosi ai miti del cinema americano, come afferma lo stesso scrittore nel capitolo intitolato Hollywood: «Non è il cinema a scrutare il mondo criminale per raccoglierne i comportamenti più interessanti. Accade esattamente il contrario». Il loro stile, il loro atteggiamento, addirittura il loro stesso modo di impugnare le armi – emblematico è il nuovo utilizzo della pistola “in orizzontale” che Saviano scrive essere stato imitato proprio da Pulp Fiction– è forgiato dall’immedesimazione nei protagonisti di film come Scarface, Il Padrino o Quei Bravi ragazzi.
Se veramente il cinema e la televisione hanno fornito un modello ai giovani aspiranti mafiosi, non si pone a questo punto il rischio dell’emulazione?
Come spiega lo stesso Saviano, questi lungometraggi e serie televisive hanno sicuramente ispirato gli atteggiamenti e le mode di molti giovani, ma non bisogna dimenticare che questi soggetti vivono già in una condizione criminale, e guardando questi film o serie televisive si sentono rappresentati. Loro hanno già fatto la loro scelta, e imitano le icone del cinema come scorciatoia per farsi riconoscere: l’immaginario del film diventa per loro la chiave per “fare carriera”. E’ in questo sottile spazio che nasce il cortocircuito tra realtà e rappresentazione.
Considerando sia il libro che la pellicola, è difficile parlare di una vera trama, ma possiamo piuttosto scrivere di un intrigo di vicende, di faide, invidie e vendette che assume più che altro il carattere poliziesco dell’inchiesta, che Garrone traduce poi in una forma estetica, a tratti lirica, scomoda e sgraziata rifacendosi a dei canoni di bellezza difficili da accettare.
Grazie alla sua formazione pittorica, Garrone racconta la desolazione di una società umana ormai fuori controllo, come un pittore che parla attraverso i colori, quadro per quadro, dimenticando il filo narrativo delle vicende per valorizzare la sequenza delle immagini, le Vele di Scampia, i mitra o la terra di Castel Volturno, uno dei più grandi centri abusivi del mondo occidentale. Accanto all’ossessione del colore, la luce e l’ambientazione diventano gli elementi più importanti sottraendo la scena attori, che diventano fantasmi dei loro stessi corpi. Prendendo la strada dell’astrazione che porta alla deformazione e alla bruttezza, Garrone fa un coraggioso uso di colori saturi, quasi irreali, che diventano materia a ste stante e che parlano al posto dei propri protagonisti, come lo stesso blu della maglietta di Ciro nell’ultima sequenza del film che riprende chiaramente la scena iniziale nel solarium. Un medesimo colore che caratterizza una medesima morte.
Spesso i volti degli attori rimangono sfuocati, la luce non è addomesticata, i personaggi non risultano ben illuminati e i loro lineamenti si confondono, come se Garrone tendesse a una non-figurazione dell’umano, riducendo i suoi protagonisti a delle enigmatiche macchie di colore. E’ in questo caso evidente il riferimento al precedente film Primo Amore, nel quale la messa a fuoco della camera esplicita il delirio psicologico in una dissociazione tra mente e corpo dove il contesto appare a nitido, ma il profilo dell’attore è del tutto sfuocato.
In questo tetro incrocio di non-vite lo spettatore segue le fughe, i colloqui e le mattanze quasi affannato e soffocato da un cine-occhio (il Kinoglaz del cineasta russo Dziga Vertov) che letteralmente pedina i suoi protagonisti, ripresi spesso e volentieri totalmente di spalle, non sfruttando le larghe vedute tipiche del formato panoramico scelto dallo stesso regista. Possiamo constatare che la tecnica del “pedinamento” è qui ispirata dal capolavoro rosselliniano Germania Anno Zero (1948), dove senza alcun filtro viene filmata una Berlino divisa e cancellata dai bombardamenti. Così come seguiamo Totò nel suo tragitto dal supermercato alla Vela Gialla di Scampia, così seguiamo il giovane Edmund che si fa strada tra le macerie e tra le difficoltà di una società ormai distrutta. Non c’è nessuna contestualizzazione o mediazione, Garrone, come Rossellini, ci mostra semplicemente quello che accade, tutto è spontaneo e naturale, nulla è controllabile dal narratore perché tutto è estremamente reale. Proprio questo lavoro artigianale dell’immagine dal vero e l’assenza effettiva di una trama romanzata annoverano Matteo Garrone tra gli artefici di un nuovo Neorealismo italiano socialmente impegnato, insieme a Paolo Sorrentino e Emanuele Crialese.