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Il dramma delle donne afghane ci riguarda molto da vicino

Parlare del corpo delle donne afghane, parlare di loro attraverso quella parte della loro più complessa persona che le connota nella loro società, significa parlare non solo di loro, ma di un corpo pubblico e sociale

10 minuti di lettura

Il 15 agosto scorso, come tutti tristemente sappiamo, il governo dei talebani ha ripreso il controllo di Kabul e dell’Afghanistan. Dopo quasi vent’anni dall’attentato dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers, che si è impresso nella memoria collettiva come uno dei momenti più tragici della nostra storia contemporanea, i talebani tornano nel loro stile, senza risparmiare nessuno. 

Le immagini dello scorso agosto hanno colpito ognuno di noi: gente attaccata alle ali e agli ingranaggi di aerei in partenza, perfettamente cosciente di non potersi salvare, ma spinta da un desiderio di sopravvivenza paradossalmente disumano che cerca il rifugio anche lì dove è palese che sia impossibile. 

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In tutto questo dramma, però, c’è stato un pensiero, una voce più forte di tutte le altre: una giovane donna lancia un video che diventa ben presto virale e che denuncia la situazione delle donne afghane, condannate ad una damnatio memoriae dolorosa e ingiusta a causa del ritorno del regime dei talebani

L’ideologia estremista talebana priva le donne della loro dignità di esseri umani e lo fa partendo dall’evidenza del loro sesso femminile. E alla luce della nostra analisi è proprio questo il cuore pulsante della questione: una donna afghana viene punita aprioristicamente in quanto donna. Nulla di più.

Il corpo delle donne e il corpo degli uomini: la dignità attraversata dal sesso biologico

Possono sollevarsi molte polemiche partendo da qui: alcuni potrebbero dire che in guerra la vita e l’esistenza di tutte le persone vengono messe a repentaglio, che siano esse uomini, donne, infanti o anziani. Ma non è assolutamente vero. E attraverso questa analisi cercheremo di comprenderne il perché. 

La vita delle donne non vale quanto quella degli uomini e partendo dalla depauperazione della dignità femminile, tutte le altre “categorie” come bambini, anziani, omosessuali, trans, queer ne subiscono le conseguenze. Infatti, il riconoscimento di tutti gli esseri umani che non siano uomini in quanto maschi, passa prima dal riconoscimento della donna. 

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Se la donna non viene riconosciuta dall’uomo in quanto maschio e dall’ideologia patriarcale e machista, è difficile, anzi impossibile, che anche tutte le altre persone vengano riconosciute. È per questo motivo che la storia dei movimenti di rivendicazione femminile si intreccia, da sempre, a quella dei movimenti di rivendicazione delle comunità LGBTQUAI+. 

Ci sono delle vite precarie, delle vite che non contano come altre vite, semplicemente in funzione di una categorizzazione derivante dal sesso biologico. Il corpo di una donna in Afghanistan probabilmente vale meno di un capo di bestiame o un appezzamento di terra. 

È tristemente noto, ormai, che, durante il regime dei talebani, precedente a quello attuale e poi spodestato durante le guerre che si sono succedute negli ultimi vent’anni per la liberazione e l’avvio di un regime democratico, le donne oltre ad indossare il burka integrale, che copriva loro anche gli occhi, non potevano uscire da sole, non potevano studiare, né esercitare liberamente una professione, non potevano neanche ascoltare musica o fare addirittura rumore, come racconta l’articolo di Huffpost dello scorso 16 agosto. 

Anche il rumore causato dai passi delle donne era definito molesto, perché invadente di quello spazio che doveva essere solo agito e vissuto dagli uomini. Molte donne durante la prima dominazione talebana si sono tolte la vita, altre sono riuscite a fuggire in paesi occidentali. 

L’Afghanistan non era un posto per loro e non lo è soprattutto oggi, ancora una volta, dopo il ripreso controllo da parte degli estremisti. Il corpo di una donna, indissolubilmente legato alla sua persona, alla sua intelligenza e alla sua dignità di essere umano, viene costretto, relegato in un margine strettissimo, dove non c’è spazio per nulla di tutto ciò che per noi, donne occidentali, è ormai scontato

Una donna è condannata, punita, segregata, violentata, abusata, per il sol fatto di essere biologicamente donna. Non contano nulla le sue idee, il suo modo di vedere il mondo, i suoi sogni. A quello stadio di autodeterminazione non si arriva neanche. È la sua vagina che la significa, è il suo corpo che la censura. 

Probabilmente è per questo che molte donne afghane hanno deciso e decidono di togliersi la vita: un corpo che dovrebbe essere solo il punto di contatto fra noi e il mondo, diventa il tratto distintivo, invariabile e penalizzante per un’intera esistenza. Tutto ciò “che sei” non conta e quindi tanto vale liberarlo per sempre con l’atto finale del suicidio, come in moltissimi casi.

Il corpo delle donne conta solo in negativo e decide per un’intera vita, così pesante se pur così “insignificante”, su cui viene imposta una copertura vestimentaria totale, proprio perché è l’unico modo per connotarlo come inesistente. E questo accomuna tutte le donne afghane e con loro tutti quelli che non rientrano nel maschile biologicamente e ideologicamente tale, ma che non possono sperare in un futuro migliore.

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Il mio corpo non è solo mio

Il corpo ha una sua imprescindibile dimensione pubblica. Il mio corpo, socialmente strutturato nella sfera pubblica, è e non è mio. Consegnato sin dall’inizio al mondo degli altri, esso porta con sé la loro traccia, si è formato nel crogiolo della vita sociale.

J. Butler, Vite precarie, Meltemi, Roma 2004, pp. 46-47

Parlare del corpo delle donne afghane, parlare di loro attraverso quella parte della loro più complessa persona che le connota nella loro società, significa parlare non solo di loro, ma di un corpo pubblico e sociale, per riprendere le parole dell’estratto di Butler.

Il corpo non è mai uno strumento neutro del nostro vivere. La vita sociale, la cultura, le abitudini del popolo a cui ognuno di noi appartiene, gli usi, la storia sono tutti tratti, caratteristiche, che si vanno ad incastrare e incastonare per sempre nella nostra vita, esperita fenomenologicamente, attraverso il corpo. 

Per questo, la tragedia a cui è condannata una donna afghana, per il fatto di essere donna, è una tragedia che riguarda ognuno di noi. È in quella socialità, in quella dimensione pubblica del corpo che ognuno è chiamato ad agire affinché questa atroce tortura che si perpetua da decenni finisca o, quanto meno, trovi una sua valvola di salvezza. 

Il mio corpo non è mio, perché è condizionato da dinamiche di cui, talvolta, nemmeno ci accorgiamo perché la nostra mente le assimila fin dall’infanzia come naturali.

Per questo prenderne atto e coscienza è fondamentale per cercare di capire dove stiamo andando, cosa sta accadendo e cosa possiamo fare per cambiare le cose. 

Le donne afghane sono forzate ad indossare il burqa, ma in quel burqa c’è il fallimento di una cultura occidentale che voleva portare la democrazia, ma che ha rovinosamente fallito. E questo, perché, dall’altro lato della medaglia, anche la cultura occidentale non è stata clemente con le donne. 

Il potere della coscienza collettiva

Non ci sono imposizioni dirette, ma vi è un richiamo sociale, una coscienza collettiva che ci induce ad agire in un modo piuttosto che in un altro, a comportarci in un modo piuttosto che in un altro, con l’aggravante che ribellarsi è più difficile quando pensi che tutto sia normale. Oggi, più di ieri, siamo chiamate all’unione. 

Da queste piccole prese di consapevolezza potrebbe passare la salvezza delle prossime generazioni a cui dovremmo auspicare solo di poter essere libere.

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Anto D'Eri Viesti

A proud millennial. Dopo il dottorato in semiotica e gender studies decide di dedicarsi solo alle sue passioni, la comunicazione e la scrittura.
Copywriter e social media manager.
La verità sta negli interstizi, sui margini e nei lati oscuri.
Tanti fiori, cioccolato e caffè.

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