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Cosa sta succedendo alle minoranze in Cina

Il futuro non riserva nulla di buono alle minoranze cinesi

12 minuti di lettura

È molto difficile comprendere le dinamiche e le faglie che dividono la Cina moderna senza dare una veloce occhiata alla storia millenaria che caratterizza il paese, e della quale i cinesi, o perlomeno gli Han, vanno particolarmente fieri. Le radici, a cui anche il presidente Xi spesso fa riferimento nei proprio discorsi e che pervade la propaganda di regime, sono profonde e richiamano la storia di un impero nato circa duemila anni fa e che noi, da occidentali, spesso sottovalutiamo pensando al gigante asiatico come ad un entità molto recente e che fino alla recentissima esplosione economica e politica non ha mai meritato il rango di potenza che ora reclama.

In realtà l’impero cinese sul levante ha raggiunto e mantenuto per diversi secoli, almeno fino alle guerre dell’oppio ed alle conseguenti “grandi umiliazioni”, un ruolo di potenza pressoché egemone costringendo gli stati vicini ad una posizione ancillare quando non di mero vassallaggio. Le grandi carestie, le purghe, la quasi totalità della popolazione in stato di povertà e le umiliazioni subite da inglesi, americani e giapponesi non devono far perdere di vista il fatto che uno stato che fu impero spesso vive del ricordo del passato: i turchi in questo senso sono un ottimo esempio, ma anche gli inglesi, e raramente si rassegnano ad un rango minore sia nella gestione delle dinamiche interne, sia sulla scena internazionale.

Han, prima di tutto

La composizione etnica cinese è estremamente variegata, con la presenza di oltre 50 etnie che compongono, sommate, l’incredibile popolazione che ammonta a quasi 1,4 miliardi di persone. Tra tutte queste etnie però spicca notevolmente, sia per numero che per influenza, quella Han, che ha sempre rappresentato la spina dorsale per secoli prima dell’impero e ora della Repubblica popolare. Nonostante però gli Han costituiscano circa il 90% della popolazione, le minoranze, considerata l’incredibile popolazione complessiva, si avvicinano e spesso superano in numero le popolazioni di moltissimi paesi occidentali, e questo non è un dettaglio di poco conto, soprattutto tenuto conto del fatto che uno stato fortemente autoritario come quello cinese ha l’esistenziale necessità di controllare le i moti che agiscono sulle periferie.

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È utile in questo senso ricordare anche come, considerato tutto il territorio cinese, solo i due terzi circa di questo siano abitati da maggioranze Han e che il resto del territorio è stato sottratto o conquistato nel corso dei secoli (l’ultimo caso è quello del Tibet) ma la cui popolazione non è stata mai realmente assimilata culturalmente. Intere provincie infatti, come quella appunto tibetana, il Qinghai, la Manciuria, la Mongolia interna e lo Xinjiang costituiscono entità più o meno formalmente autonome da Pechino, con forti connotazioni religiose e linguistiche che costituiscono una faglia di frattura netta con il resto del paese. In questo senso va considerata anche la componente economica, che ha un certo peso negli equilibri interni. Negli ultimi 40 anni la Cina è riuscita, con un mix di misure economiche attentamente calibrate e fortemente centralizzate, a elevare dalla soglia di povertà oltre 700 milioni di persone e recentemente Xi ha dichiarato, durante il congresso del PCC, di aver raggiunto l’obiettivo di trasformare il paese in una “società moderatamente prospera” con il raddoppio del reddito pro capite del 2010.

Rimangono però oltre 50 milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà (utilizzando standard governativi) e la dislocazione territoriale della ricchezza è fortemente disomogenea. Tutti i grandi centri economici e produttivi sono infatti situati nella zona orientale del paese e non a caso, in questo senso, il governo ha nel corso degli ultimi anni promosso fortemente lo sviluppo delle periferie. L’iniziativa della “Nuova via della seta” va letta anche come un tentativo in questa direzione. In questo senso, è chiaro alla classe dirigente cinese che una periferia debole vuol dire una maggiore esposizione del paese sulla scena internazionale.

Hong Kong e lo Xinjiang, così diversi eppur simili

Sulla scena internazionale a tenere banco, da circa due anni a questa parte quando si tratta di Cina in relazione al rispetto dei diritti umani, leva politica frequentemente usata dai governi occidentali, sono principalmente due questioni che il governo di Pechino ha intenzione di risolvere in breve tempo per rafforzarsi internamente: il primo caso è costituito da Hong Kong ed il secondo, ora che la questione tibetana sembra aver perso di appeal, è quello della minoranza uigura etnicamente dominante nella provincia dello Xinjiang.

La questione di Hong Kong, che ormai può essere considerata una minoranza non nel senso classico del termine, ma sicuramente da un punto di vista politico, costituisce una spina del fianco che il partito ha intenzione di togliere prima della naturale scadenza a cui comunque la disputa sarebbe destinata. Hong Kong costituisce infatti una piazza commerciale di statura mondiale parzialmente autonoma che Pechino vuole riprendere sotto controllo per alcuni motivi: il primo è commerciale e finanziario ed è legato alla straordinaria posizione che la penisola occupa nel settore, il secondo ed il terzo motivo sono invece squisitamente politici, ma per questo non meno rilevanti. Dal punto di vista politico infatti la popolazione di Hong Kong, istruita fino alla fine degli anni 2000 sotto un sistema di stampo essenzialmente britannico, sta dimostrando un’abitudine alla democrazia che Pechino reputa potenzialmente contagiosa per il resto del paese, ed in secondo luogo il partito-stato cinese si è trovato negli ultimi anni a dover affrontare una questione che riteneva di poter rimandare agli anni a venire e che invece si dimostra una sfida quanto mani contemporanea, ovvero il confronto con gli USA. Da questo punto di vista per una nazione che ha mire egemoni, quantomeno sull’Asia per ora ma un domani chissà, controllare ed avere a completa disposizione il proprio territorio in modo ferreo è fondamentale.

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In questo contesto si inserisce anche la questione Uigura, ovvero relativa a quella popolazione che abita la grandissima e periferica provincia dello Xinjiang. Questa provincia è infatti distante dal nucleo dello stato cinese sotto diversi aspetti, alcuni di importanza fondamentale. Si tratta di una regione tra le più povere della Cina, profondamente arretrata rispetto alle provincie orientali. La popolazione è infatti in maggioranza turcomanna, discendente da antichi ceppi da sempre presenti in asia centrale e negli stati confinanti, resosi autonomi in gran parte dopo la caduta dell’Unione Sovietica. È interessante notare infatti come le spinte autonomiste uigure si siano notevolmente rafforzate dopo la dissoluzione dell’URSS e la conseguente nascita delle repubbliche post-sovietiche che condividono numerosi tratti distintivi con la popolazione dello Xinjiang. Anche la lingua è una stretta parente del turco e la religione, che è uno dei nodi centrali sui quali preme il governo centrale, è l’Islam di tipo sunnita.

Questo ultimo tratto è stato infatti additato dal Pechino come potenzialmente, e non solo, pericoloso dal punto di vista della sicurezza interna. Ci sono stati infatti nel corso degli anni alcuni attentati e la porosità delle frontiere, soprattutto con il Pakistan ha permesso un certo radicamento di organizzazioni estremiste ma la portata del fenomeno è stata comunque sempre tutto sommato contenuta. Dal punto di vista politico però il fatto ha sempre costituito una scusa non da poco per il governo centrale per muovere una campagna di de radicalizzazione nella regione, non lesinando spesso, come accertato di più organismi internazionali, sui metodi. Sono infatti molteplici gli indizi della presenza di veri e propri centri di detenzione arbitraria e di pesanti limitazioni della libertà individuale, in maniera ancora maggiore che nel resto del paese.

In questo senso sembra essere in corso anche un processo di ingegneria etnica simile a quanto messo in atto da Stalin nei primi anni dopo la costituzione dell’Unione Sovietica, quando interi gruppi etnici furono sparpagliati e divisi sull’immenso territorio nazionale per diminuire il rischio di insurrezioni locali fomentate da spinte autonomiste. In questo senso la storia insegna, e la Cina odierna non è certamente meno autoritaria nella gestione degli affari interni di quanto fosse l’Unione Sovietica dell’epoca. A tutte le questioni ed alle sanzioni imposte dai paesi occidentali sulla vicenda, Pechino ha sempre risposto seccata che le questioni interne non devono interessare a nessun paese terzo, sottolineando come la Cina non si intrometta nelle questioni interne degli altri nel momento in cui venga rispettata una reciprocità di trattamento.

Principio di non interferenza

Lo stato cinese, a dispetto di quanto i paesi occidentali si auspicherebbero, continuerà nel suo processo di consolidamento interno. Le leve in mano all’Unione Europea e agli USA per evitare che questo accada a discapito delle minoranze potrebbero non bastare, non perché siano necessariamente deboli, ma perché il governo cinese, e Xi in particolare, sembrano attribuire al tema un’importanza cruciale per lo sviluppo futuro del paese. Il futuro per le minoranze in Cina non sembra poter riservare nulla di buono, con buona pace di chi crede in una convivenza paritaria possibile.

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Michele Corti

Nato a Lecco nel 1996, studente di Scienze Politiche. Amo la montagna in ogni sua veste, il vento in faccia in bicicletta, la musica e provo a destreggiarmi nella politica internazionale, cosa fortunatamente più semplice rispetto a quella italiana."

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